una rosa d'oro

 

La storia e... le piccole storie

 

 


La Sicilia degli inganni

A cura di Rutilio

 

Durante il regno di Ferdinando di Borbone, re delle Due Sicilie ,
alla fine del Settecento,quando la stagione del Barocco
volgeva al termine e si andava diffondendo notizia del
giacobinismo e della rivoluzione,in Sicilia fecero parlare di sé
due personaggi singolari,
che non appartenevano alla Storia ufficiale ma che è opportuno
citare perché sono emblematici della mentalità del tempo e di
un atteggiamento che spesso si manifestò in Sicilia e fu
esportato al di fuori di essa recando purtroppo il segno della
sua origine: l’impostura.
Frode e inganno non erano per i Siciliani termini sconosciuti :
essi si potevano considerare bensì una
dilatazione , di natura certamente maligna, di quell’arte di
arrangiarsi per vivere e per ottenere i beni di fortuna che la
sorte aveva negato al momento della nascita, collocando un
individuo in una fascia sociale priva di ricchezze, onori ed
occasioni favorevoli per acquistare fama e gloria.
Più volte si erano verificati in Sicilia casi di clamorosi inganni perpetrati per lo più in campo finanziario, specialmente quando si
trattava di falsificare e coniare le monete che la regia Zecca
era incaricata di battere.
Narra ad esempio lo storico G.E. Di Blasi, nella sua Storia del
Regno di Sicilia, che nel 1759 le monete d’oro dette “Fenici”,
volgarmente chiamate “Onze”, per peso e qualità del metallo
erano coniate con valore reale inferiore a quello dichiarato.
Nacque uno scandalo tale che il re Carlo III non poté ignorare il
fatto e spedì a Palermo il Principe di Campofranco il quale
appurò che le accuse erano fondate e che le monete erano di
valore inferiore a quello ufficialmente loro attribuito.
Nonostante la frode fosse stata scoperta,le Fenici non furono
ritirate dalla circolazione né furono rifatte, come era stato
ordinato dal Sovrano, e avevano corso legale ancora
nei primi dell’Ottocento, anzi erano molto ricercate.


Il Tribunale della Santa Inquisizione
Pedro Berruguete-1450/1504
Museo del Prado- Madrid-

 

Giuseppe Balsamo  sedicente Conte di Cagliostro
Ritratto  di P.Le Gay,1778
Versailles

 

     

Ferdinando IV di Borbone Re delle Due Sicilie con tutta la sua Famiglia.
A.Kauffmann
Museo di Capodimonte-Napoli

 

 

 

L'Abate Vella e il Conte di Cagliostro

 

Dunque, due personaggi vennero a confermare , per i Siciliani,
la fama di impostori , nata da diversi precedenti episodi .
Uno dei protagonisti di questo fenomeno sociale fu l’Abate Vella,
di cui si parla nel libro di Leonardo Sciascia “Il Consiglio d’Egitto”
e nel film da esso tratto (cfr. in questo sito un commento nella rubrica dedicata ai libri e ai films).
Il Vella, un modesto frate di origine maltese trasferitosi a Palermo
dove rivestiva il compito di cappellano dell’Ordine dei Cavalieri di Malta,
facendo credere di conoscere la lingua araba,fornì
una traduzione del tutto inventata di un codice
arabo che egli sostenne essere un documento comprovante
secolari privilegi e possedimenti delle illustri casate nobiliari
siciliane:in realtà, il codice non era altro che una vita di
Maometto. Inoltre il frate, intanto divenuto abate per i
meriti acquisiti con la traduzione di un così importante
documento, costruì di sana pianta un altro codice e la
relativa traduzione,in cui si attribuivano alla Corona poteri
e privilegi che i nobili avevano avocato a sé da secoli, nel
tentativo di attirarsi la benevolenza del re.
Scoperto e denunciato, fu condannato a quindici anni di carcere.
Altro e più famoso esempio d’impostura fu quello di Giuseppe Balsamo,
palermitano, sedicente Conte di Cagliostro.
Certamente nei secoli passati avventurieri ve ne furono, e non solo
in Sicilia, non potendosi riconoscere con certezza le persone
perché non esistevano documenti di identità in cui fosse
contemplato esibire un’immagine del titolare .
Lasciapassare e salvacondotti erano, sì, pieni di bolli di
ceralacca,di firme e di stampigli, ma poteva esibirli chiunque
ne fosse in possesso, che li avesse falsificati o rubati al legittimo proprietario.
Era spesso un abito indossato,una carrozza e qualche servitore o
uno stemma ricamato sulla livrea di un cocchiere che poteva
dar lustro e credibilità a qualsiasi persona volesse farsi
passare per nobile o per rispettabile e ricco personaggio.


Così accadde per Cagliostro, che di sé diceva di essere Conte,di
esser nato in Oriente, forse in Egitto,dove aveva imparato la
magia e l’alchimia. In realtà da giovane aveva acquisito
conoscenze di chimica, servendosi delle quali preparava
unguenti,filtri ed elisir,che da volgare ciarlatano lo fecero
diventare mago quando,lasciata la terra natia dove era
ricercato per aver commesso truffe e falsificazioni,cominciò a
viaggiare per i paesi del Mediterraneo,Grecia,
Egitto,Malta,Napoli e Roma .
Scelse per moglie una donna del popolo, bella ma ignorante ed
infida, con cui ebbe alterne vicende.
Si recò a Parigi e a Londra, dove passò dalla frequentazione delle
più nobili case alla prigione, per poi divenire massone e
fondare egli stesso una Loggia di cui si fece Gran Maestro,o,
come volle chiamarsi, Gran Cofto, sostenendo che
la sua Massoneria era di origine egiziana.
Poiché l’epoca era proclive alle Società segrete, egli ebbe un certo
successo in Germania,Belgio,Olanda, Russia, Polonia, per
andare poi a Strasburgo dove lo si attendeva preceduto dalla
fama di taumaturgo e dove lo aspettavano in folla
malati di ogni classe sociale pronti a versare il loro obolo
perché rendesse loro la perduta salute.
Passò poi a Parigi, dove però caduto in disgrazia il suo illustre
ospite e protettore, anch’egli fu arrestato.
Liberato, commise il fatale errore di recarsi a Roma, dove non
avrebbe mai dovuto rimettere piede poiché sul suo capo
pendeva , nello Stato Pontificio, l’accusa di magia,
massoneria,eresia e truffa.
Arrestato e condannato dal Santo Uffizio, che a Roma ancora
vigeva ed operava (al contrario della natia Sicilia, dove i
Borboni lo avevano abolito) ,fu condannato alla pena di
morte poi commutata nel carcere perpetuo, e in carcere
impazzì e poi morì nel 1795,lasciando molti interrogativi sulla vera natura della sua personalità.
A Palermo è oggi possibile visitare la casa dove nacque e visse
nell’infanzia e dove continuò a vivere la sua famiglia anche
dopo che lui partì dalla città natale per non farvi ritorno.
La gente del popolo ne parla ancora con reverenza e timore e,
passando dinanzi alla casa, si segna con la croce, non si sa se
per superstizione o per esorcismo.


Dei mali presenti nella società siciliana del tempo parla ancora il
Di Blasi,il quale denunzia la pratica del furto e delle
rapine,le frodi e le falsificazioni, ma sottolinea
contemporaneamente che questi erano i difetti di alcuni :
“…in una terra densamente popolata come la Sicilia - aggiunge lo storico –
non tutti possono essere virtuosi,e se la
maggior parte dei cittadini è onesta, ciò vuol dire che il
popolo,nell’insieme pratica la virtù e il buon costume.
E’ vero anche che a delinquere son più portati i poveri, ma
neanche i nobili son privi di colpe: anch’essi sono spesso in
difficoltà per gli enormi debiti contratti per sostenere una
vita condotta nel lusso e nello sfarzo per superare i loro pari
e rivaleggiare in splendore e magnificenza.
Ma lo spirito del popolo siciliano si leva più in alto,lasciando
dietro di sé gli aspetti deteriori che caratterizzano i pochi e
non deturpano i più.”

Così affermava G. B. Di Blasi, e in realtà l’anima dei Siciliani
era spesso multiforme e piena di sfaccettature,mostrava
aspetti che si contraddicevano, appariva utilitarista e poco
affidabile a chi non avesse considerato che i figli della Sicilia
avevano dovuto vivere sempre sotto il peso della
dominazione straniera e, per sentirsi liberi “dentro”, avevano
dovuto imparare a mostrare all’esterno un volto diverso da
quello reale. Manifestare infatti i propri pensieri poteva
comportare pericoli per la propria incolumità e turbative per la società.
A tal fine certamente la Santa Inquisizione aveva insegnato ai
Siciliani molte cose,tra cui l’arte di mimetizzarsi e camuffare
le proprie idee per non pagare il fio di colpe non commesse.

Quest’arte i Siciliani non la dimenticarono e , con buona pace del
Principe di Salina,riuscirono a far scambiare per sonno quella
che nell’intimo della loro mente era un’attenta e vigilante
capacità di osservazione della realtà.(
Rutilio)


 

Emblemi della Massoneria
Sec.XVIII


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