una rosa d'oro

 

Commenti e critiche


 

 

 

 

LE MORTI BIANCHE:

RESPONSABILITA’  E   PREVENZIONE

 

di Clelia Di Stefano

 

 

Come sempre, quando un fenomeno di carattere sociale si verifica a ridosso delle elezioni politiche i media se  ne impadroniscono e ne amplificano la portata.

Ne nasce un interesse che si dilata alla ricerca ossessiva di casi analoghi usati per dimostrare che il fenomeno del momento è di grande interesse e deve essere analizzato e considerato da tutti i punti di vista per risolvere tutte le problematiche ad esso connesse.

 

Giacomo Balla-Velo di vedova + paesaggio-1916

 

Di questo genere di fenomeni, poi, generalmente, si impadronisce anche la politica, che li adopera per aggredire i partiti al governo ed accusarli di non aver saputo prevenire le conseguenze disastrose di questioni annose e mai risolte, i cui effetti deleteri si moltiplicano nel tempo radicandosi sempre più profondamente nel tessuto sociale.

 

E’ il caso degli incidenti sul lavoro che hanno determinato di recente un ingente numero di morti.

I decessi a causa di incidenti verificatisi sul lavoro ci sono sempre stati, e nessuno mai se ne è molto preoccupato.

Le situazioni verificatesi di recente hanno attirato però l’attenzione generale a causa della loro gravità e perché gli infortuni sono accaduti all’interno di aziende italiane o straniere con sede in Italia di una certa rilevanza e di grande notorietà, dalle quali non ci si aspettava che non avessero curato l’aspetto della sicurezza dei lavoratori.

 

 

I DATORI DI LAVORO

 

In seguito a queste vicende si è creato un “casus belli”  a causa delle presunte responsabilità dei datori di lavoro, rei di non prendere le necessarie precauzioni per impedire disgrazie durante l’adempimento delle funzioni lavorative.

 

 

Non c’è dubbio che i datori di lavoro abbiano spesso delle grosse responsabilità per quanto riguarda la superficialità con cui assumono individui di cui non cercano di appurare se abbiano le necessarie conoscenze relative al lavoro che dovranno compiere, se abbiano fatto altre esperienze nello stesso campo lavorativo, se le loro condizioni di salute siano adatte alla fatica che dovranno intraprendere.

 

Queste informazioni dovrebbero essere basilari per capire il livello di rischio a cui si espone un individuo che, comunque, dovrebbe fare un breve tirocinio relativo al lavoro che intraprenderà, non foss’altro che per mettere in evidenza il suo livello di conoscenza della pratica lavorativa e le sue capacità reali, che comunque dovrebbero essere testimoniate dal suo curriculum e da lettere di referenza rilasciate dai precedenti datori di lavoro, qualora ce ne siano stati.

 

Più delicato ancora, per lavori che abbiano un indice accertato di pericolosità, è assumere persone che non abbiano alcuna esperienza lavorativa: in quel caso si impone assolutamente il tirocinio, senza aver superato il quale, dimostrando di aver la capacità di affrontare un tipo specifico di lavoro, non dovrebbe essere possibile essere assunti.

 

 

I  LAVORATORI

 

Ma, anche se la legge in teoria richiede in senso lato tutte queste operazioni preliminari ad un’assunzione per un posto di lavoro, non pare che gli imprenditori italiani -o stranieri, come si è visto a Torino- si preoccupino tanto di appurare il livello di idoneità dei loro dipendenti.

 

I quali, tuttavia, hanno dalla loro parte anch’essi una notevole responsabilità nell’affrontare senza troppi scrupoli e senza i necessari requisiti il lavoro, in modo particolare quando si tratti di un’attività specifica, che per essere esercitata, come nel caso della ripulitura delle cisterne che trasportavano sostanze chimiche, avrebbe bisogno di individui in possesso di sia pure elementari conoscenze relative ai processi di modificazione cui vanno soggette sostanze che divengono  pericolose quando vengano in contatto con reagenti o solventi di vario tipo.

 

Né meno  assurdo è, o meno irresponsabile il comportamento di chi sa di dover indossare indumenti particolari,maschere, caschi per evitare incidenti durante l’espletamento di un servizio e invece non li indossa.

Un ragazzo che ha sempre fatto di mestiere il pizzaiolo, in attesa di cominciare il suo vero lavoro,  va a ripulire una cisterna con un paio di scarpe da ginnastica invece che con gli speciali gambali adatti a non essere danneggiati dai solventi chimici che si immettono nelle cisterne per ripulirle.

 

 

I suoi compagni, che prima di lui hanno già fatto altre volte quel lavoro, non portano le maschere antigas prescritte all’uopo pur sapendo che nel compierlo è facile che gas velenosi e letali emanino dalle cisterne.

Nessuno, a quanto pare, prima che quel ragazzo cominciasse a lavorare, lo avvertì dei pericoli cui andava incontro, né alcuno gli fece notare che il suo abbigliamento non era adatto al compito che si era scelto e che non aveva mai affrontato prima di allora.

Né, dal canto suo, il giovane si pose evidentemente il problema.

 

 

UNA STRANA CONCEZIONE DEL LAVORO

 

E qui si torna all’antica concezione del lavoro che gli Italiani hanno costantemente avuto, né mai hanno mostrato di essere disposti a cambiare, una concezione che ha segnato in negativo anche e sopra tutto i nostri emigranti, sin dai tempi anteriori all’Unità d’Italia.

 

Gli Italiani, infatti, hanno da sempre pensato che un lavoro vale l’altro, che non si nasce con le conoscenze necessarie a compiere un’attività, ma che esse si acquisiscono sul campo, praticandola.

Da ciò, come si  può ben capire, è derivata ai nostri concittadini,sopra tutto da parte degli stranieri, un’accusa di ignoranza, superficialità, incapacità, e non è bastata la buona volontà, l’abnegazione, il senso del dovere  per compensare il giudizio negativo che troppe volte è stato espresso nei confronti della mano d’opera italiana, buona a far un po’ di tutto, ma non tutto di ogni lavoro, con un pressappochismo che ha segnato -e ancora segna- indelebilmente la qualità del nostro lavoro.

 

 

Le cause di questa errata concezione sono molteplici: tuttavia, alla loro base  vi è la mancanza di istruzione e l’impossibilità concreta di fare esperienze lavorative nella terra d’origine.

A ciò si aggiunga che il bisogno immediato di lavorare per vivere ha sempre indotto chi cerca lavoro a dichiarare spesso il falso: cioè di aver fatto altre volte il lavoro per cui si presenta, senza valutare, con ciò,  i rischi connessi alla pratica di un’attività invece sconosciuta.

 

Né oggi si può affermare che tali cause siano sostanzialmente mutate: anche se il lavoro non si va a cercare all’estero ma vicino casa, il livello di ignoranza della popolazione è ancora molto alto, una grossa percentuale di italiani non ha neanche finito di frequentare la scuola elementare, molti vivono in zone d’Italia dove non vi sono industrie e, se vanno al nord in cerca di un lavoro  relativo all’attività industriale, sono totalmente impreparati a compierlo né possono evidentemente avere esperienza nel campo.

 

Talvolta -anzi, più frequentemente che altrove- gli incidenti accadono durante l’espletamento di attività relative al mondo dell’edilizia.

Ciò è dovuto, molto spesso, al fatto che gli operai edili non prendono le dovute precauzioni durante l’adempimento del proprio lavoro.

 

 

Specialmente quando lo compiono sulle alte impalcature di palazzi in costruzione, dovrebbero essere assicurati alle strutture d’acciaio  mediante cavi dello stesso metallo che potrebbero salvarli in caso di un malore o di un incidente non grave, che tuttavia in mancanza di un adeguato supporto si trasformano spesso in tragedie.

 

Ma sarebbe interesse dei lavoratori accertarsi di essere protetti dagli incidenti: essi dovrebbero rifiutarsi di fare un lavoro pericoloso senza l’adeguata sicurezza.

Però spesso non denunciano le condizioni precarie in cui sono costretti a lavorare per paura di essere licenziati, di perdere il lavoro e con esso il guadagno.

 

 

UN LAVORO  OCCASIONALE

 

In ambedue le circostanze, la responsabilità è anche del datore di lavoro, il quale spesso assume per qualche giorno un lavoratore occasionale perché ha bisogno all’ultimo minuto di un aiuto in più, ed è assolutamente improbabile che lo metta in regola, che lo assicuri, che si accerti delle sue reali capacità.

 

 

Con molta superficialità, si bada solo al fatto che si ha bisogno di un paio di braccia e non al fatto che queste braccia siano idonee a compiere il lavoro che sono chiamate a fare, né il titolare dell’azienda pensa con serietà al problema della sicurezza, tranne poi a lasciarci la vita per correre a salvare il lavoratore in pericolo senza riuscire ad aiutarlo ed immolandosi inutilmente, solo perché non ha riflettuto prima sul da farsi.

 

 

GLI “EROI”, I “MARTIRI”

 

Prima di chiamare “EROI” quelli che muoiono negli incidenti sul lavoro, bisognerebbe chiedersi quanta parte essi abbiano avuto nel determinare con la loro leggerezza la propria morte.

Si badi bene, non è questa  durezza di cuore o un tentativo di scagionare dalle accuse i datori di lavoro.

Ma ci sembra gravemente diseducativo, per tutti coloro che si accostano al lavoro con la stessa superficialità che abbiamo messo in evidenza, il fatto di considerare dei martiri persone che con la loro improvvida ignoranza finiscono col coinvolgere nella loro morte anche altri individui, come gli altri due operai che insieme al titolare dell’azienda accorsero per salvare il giovane pizzaiolo improvvisatosi pulitore di cisterne.

Quindi, ci sembrerebbe giusto, sì, invocare leggi punitive per i datori di lavoro che non provvedono alla sicurezza dei lavoratori, ma ci parrebbe altrettanto necessario  creare delle regole ferree per imporre a chi richiede di praticare una determinata tipologia di lavoro, dove siano connaturati allo svolgimento del medesimo seri pericoli per l’incolumità del lavoratore, di compiere un tirocinio sia pur breve per comprendere almeno quali siano le modalità per affrontarlo serenamente e senza conseguenze per sé e per gli altri.

 

 

Non è quindi utile accanirsi solo  a considerare le colpe dei datori di lavoro senza tenere conto di quelle dei lavoratori.

Ma per quell’atteggiamento distorto che fa considerare ancora il titolare di un’azienda “il padrone” e il lavoratore, pur tutelato ormai dalla legge, come uno schiavo, si scaglia la prima pietra sul datore di lavoro, che, intendiamoci, avrà pure le sue colpe, mentre si scagiona del tutto il lavoratore che da colpe esente non è, e che dovrebbe essere richiamato  al suo dovere tanto quanto lo sarà sicuramente l’altro.

 

Una legge equanime, dunque, dovrebbe considerare paritetica la condizione  di chi offre il lavoro e di chi lo richiede: a ciascuno le sue responsabilità, e sopra tutto la consapevolezza che tutelare la sicurezza propria e altrui è il presupposto irrinunciabile per accostarsi con serenità al mondo del lavoro.

 

 

Clelia Di Stefano (Kate Catà)

 

 

 

 

 

 

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