una rosa d'oro

 

Narrativa


   

    Racconto di CLELIA DI STEFANO

 

 

Una casa con un vecchio ascensore. Un televisore degli anni novanta. Un cellulare con poche funzioni comprato dieci anni prima.

L’elenco delle cose che non andavano avrebbe potuto continuare all’infinito.

Per di più, non si sapeva perché, bastava che uno solo degli oggetti di comune utilità non funzionasse, che -incredibile a dirsi- subito  si innescava un processo perverso di totale disfunzione in altri strumenti di lavoro, di trasporto, negli apparecchi elettrici ed elettronici.

Aveva un continuo timore che qualcosa cominciasse a guastarsi o che smettesse di funzionare: sapeva che dopo la prima, una serie di altre avrebbe dichiarato forfait, costringendo il suo risicato bilancio a fare i salti mortali. Il suo, non quello del marito, che di tutti i problemi domestici non voleva neanche sentir parlare.

 

Quella mattina si era fermato definitivamente il suo orologio da polso. Da alcuni giorni aveva incominciato a fare i capricci, forse perché il meccanismo era sporco o perché la pila si era scaricata.

Aveva aperto il cassetto della scrivania del marito, e, pescando tra le infinite cianfrusaglie che lo riempivano, era riuscita a trovare uno swatch, appartenuto al figlio maggiore, che lo aveva abbandonato quando la sua donna di turno gli aveva regalato un cronografo di marca.

Lo mise al braccio, senza potersi impedire di pensare quale sarebbe stato l’oggetto numero due della serie soggetta ai guasti di quel giorno.

Proprio quando si era dimenticata del problema, mentre scendeva le scale del palazzo per andare al lavoro, Emilia si ricordò di non aver programmato l’allarme antifurto della casa, e fece dietro-front, risalendo i gradini  in fretta per  rimediare alla dimenticanza.

Rientrata in casa, però, vide dall’ingresso che dalla porta del bagno di servizio usciva un consistente rivolo d’acqua: corse ad aprire la porta  e si rese conto che doveva essersi rotto qualche tubo.

Non era un tubo, in realtà, ma un flessibile del lavandino, in cui si era aperto un rispettabile buco,  quello da cui usciva un fiotto sempre più robusto d’acqua.

Corse a chiudere il passatore per fermare il flusso e si ricordò che ,così facendo, avrebbe dovuto anche spegnere la lavastoviglie che aveva messo in funzione per lavare piatti e bicchieri che le sarebbero serviti per ora di pranzo e che invece ora sarebbero rimasti sporchi.

Questo, giusto nel giorno in cui Rosa aveva deciso di assentarsi per motivi personali.

Prese il telefono e chiamò la scuola, dove avrebbe dovuto già essere arrivata, per dire che  le era capitato un infortunio domestico e non sarebbe andata  a fare lezione.

Si prese una lavata di capo dal preside che detestava giustificazioni legate alle necessità familiari, e cercò sull’agenda il numero dell’idraulico.

 

La razza degli idraulici, come quella dei sarti, dei ciabattini e di infiniti altri tipi di artigiani,è, come tutti sanno, in via di estinzione. Gli esemplari in grado di compiere le proprie funzioni sono sempre più rari e più oberati di lavoro,le loro richieste di denaro anche per interventi di poco conto sempre più esose.

Ottenne la promessa di una visita pomeridiana, e, dopo essersi liberata delle scarpe ormai inzuppate d’acqua tanto da ostacolarle il passo, andò svestendosi sino ad arrivare in camera da letto, dove trovò un abito da lavoro che indossò in fretta, consapevole di dover affrontare la spiacevolissima fatica di asciugare la casa allagata, il che avrebbe comportato una serie innumerabile di flessioni della spina dorsale e di torsioni di mani e braccia, per strizzare gli strofinacci grondanti d’acqua, che l’avrebbero lasciata dolorante per diversi giorni.

 

Infilate un paio di vecchie ciabatte,fece nondimeno il suo lavoro, e alla fine si abbatté esanime su una sedia della cucina, non prima di avere acciuffato al volo, passando, una bibita dal frigorifero.

Abbandonata sul posto a sedere più comodo di tutta la casa- infatti le altre possibili sedute erano realizzate tutte in posizione inclinata, mentre le sedie della cucina erano ad angolo retto, situazione ideale per la sua schiena- considerava che sotto molti aspetti per lei il locale preferito, tra tutti quelli dell’appartamento che abitava, era proprio quello in cui si trovava in quel momento.

 

Era una stanza grande,ben divisa,con un terrazzino antistante pieno di piante fiorite. C’era una zona per cucinare , lavare, stirare ed una per mangiare, leggere, guardare la televisione, riunirsi a parlare intorno al lungo tavolo che era in grado di accogliere tutta la famiglia per i pasti quotidiani, anche se ormai più della metà dei familiari era sparso per il mondo e sempre più di rado si apparecchiava la tavola per otto persone.

Lei non  era più molto giovane, ma ancora piena di energia e di voglia di fare, e, se si teneva conto del fatto che aveva sempre realizzato tutto in anticipo,compresa la conquista di un posto di lavoro , il matrimonio e le tre maternità, si poteva ben supporre che avrebbe continuato a vivere con entusiasmo la sua vita oltrepassando di slancio gli ostacoli che l’esistenza le prospettava continuamente.

Si riscosse da quei pensieri perché la lattina della bibita era ormai vuota e doveva pure gettarla nella pattumiera, e si chiese cosa avrebbe potuto fare per colmare quel vuoto di tempo forzato e imprevisto che la costringeva a casa suo malgrado.

Le bastò girare lo sguardo intorno per avere l’imbarazzo della scelta: il cesto con la biancheria da rammendare traboccava, il recipiente degli indumenti da stirare che Rosa cercava di non affrontare mai somigliava ad una montagna tozza e massiccia, la verdura da ripulire per essere cucinata sembrava tentare con ogni sforzo di attirare la sua attenzione.

 

 

Decise di dedicarsi per un’oretta al rammendo, per passare poi a cucinare il pranzo e la cena: infatti di solito lei non cucinava nulla di pomeriggio o di sera. Preparava  il cibo cotto per il pasto serale  e lo riponeva nel frigorifero, per farlo rinvenire poi al momento giusto nel forno a microonde.

Le mani lavoravano riattaccando bottoni e rammendando calzini e indumenti sportivi dei figli maschi che vivevano per conto loro ma le portavano regolarmente i loro indumenti per farli lavare, riattaccare i bottoni e rifare gli orli, mentre la mente vagava esaminando i problemi familiari, che non erano pochi davvero.

 

Dei suoi tre figli,Luisa, la più grande, si era sposata, giovanissima come lei, con un  ufficiale della Finanza, che era stato trasferito  in un paesetto di montagna al confine italo-austriaco.

Per fortuna, la ragazza si era laureata  prima di sposarsi ed ora insegnava nella scuola pubblica del paese a cui il marito era stato destinato.

 

Avevano due bei bambini, una femmina e un maschio, che per lei erano due perfetti sconosciuti. Venivano tutti e quattro per Natale, restavano circa una settimana, durante la quale si dividevano tra la famiglia d’origine di lui e quella di lei, e i bimbi, stupiti di vedere tanta gente nuova,restii a farsi baciare e abbracciare da persone sconosciute  che dicevano di voler loro tanto bene, stentavano a familiarizzare.

Quando cominciavano a scambiare spontaneamente con lei un bacio o una carezza era già tempo di ripartire.

 

Il secondo incontro avveniva d’estate. Finita la scuola i piccoli avrebbero potuto trascorrere le vacanze con i nonni, ma i genitori, che avevano lavorato tutto l’inverno e li avevano visto pochissimo, non volevano lasciarli andare: prendevano le vacanze anche loro e partivano per viaggi d’istruzione(così li chiamavano) per far conoscere il mondo ai figli, che, in verità, erano troppo piccoli per ricordare alcunché, ma che erano felici di stare finalmente tutto il giorno con papà e mamma.

Alla fine d’agosto tornavano a casa. Era quello il momento dei nonni, che, a turno, prima gli uni e dopo gli altri, andavano a trovarli e a stare un po’ con loro.

Di solito, poiché la nonna materna insegnava, andava per prima, col nonno, per tornare all’apertura della scuola, mentre i nonni paterni, ormai in pensione, andavano nella seconda metà di settembre e restavano sino ai primi di ottobre.

 

Questo, a lungo andare, aveva consentito loro di acquisire una maggiore familiarità con i bambini, che al vederli mostravano felicità ed affetto, laddove restavano del tutto indifferenti davanti ai genitori della mamma.

 

Mentre pensava con un groppo alla gola a quante occasioni aveva perduto di vivere con la figlia e i nipoti, squillò il citofono.

Sarà l’idraulico, pensò,  ma non aveva detto che sarebbe venuto dopopranzo?

Poiché era sempre guardinga  e  timorosa, rispose all’apparecchio e chiese chi fosse.

La portinaia disse con tono annoiato:-Fiori, fiori per lei.-

Fiori? Fece un rapido controllo mentale. Non era il suo onomastico né il compleanno , e nemmeno l’anniversario delle nozze.  Chi mai poteva mandarle dei fiori?

Vediamo, si disse, se questi fiori oggi portano bene o se sono la terza disgrazia del giorno: non c’è due senza tre... stiamo a guardare... .

 

Appena bussarono alla porta aprì subito, desiderosa di scoprire chi le avesse mandato quell’omaggio.

Il garzone del fioraio le consegnò un biglietto e un mazzo di rose: -Si chiamano Morning Glory, disse con un sorrisetto pieno di sottintesi- e se non gli cambia l’acqua tutti i giorni.. vanno in bianco!-

Strappò quasi dalle mani di Emilia la mancia che lei stringeva ancora tra le dita pur  porgendogliela, e scappò scendendo gli scalini a quattro a quattro.

Meccanicamente chiuse la porta, e trascinando le ciabatte si avviò verso la cucina, luogo del suo conforto.

 

 

Le rose erano bellissime: di un rosso quasi nero, vellutate e non molto profumate, da guardare, non da odorare.

Le contò come in trance, erano ventiquattro.

“Due dozzine di rose scarlatte”. Le venne in mente  il titolo della famosa commedia degli anni Trenta, scritta da De Benedetti, di cui aveva sentito parlare  quand’era bambina.

 

Ora si era nel 2000, ma le rose rosse suscitavano sempre l’idea di un ammiratore sconosciuto che voleva creare un approccio sentimentale segreto e non del tutto innocente.

Il biglietto le scottava tra le dita. A forza di stringerlo senza rendersene conto lo aveva gualcito tutto, così che faticò ad aprirlo senza rompere la carta, elegante e ruvida, di una famosa marca, di cui solitamente si scrivevano buste e cartoncini per partecipare le nozze.  

 

Con una grafia nervosa e spigolosa, chi lo aveva scritto  aveva scelto poche ma incisive espressioni.

Diceva così:

“Spero proprio che Lei riesca a trovare una motivazione valida per convincere suo marito del motivo per cui le sono pervenute queste rose.

Quanto a me, gliele ho mandate perché lei capisca che , se non accetterà di vedermi, la metterò in imbarazzo mandandole ogni giorno una quantità sempre maggiore degli stessi fiori.

Quando le farà piacere, mi chiami al cellulare. Ma non mi faccia aspettare troppo, o se ne pentirà.

                                                                                   Un ammiratore impaziente.”

 

Seguiva un numero di cellulare, da cui non era evidentemente possibile risalire all’autore della missiva dal tono prepotente e minatorio.

Continuava a girare senza costrutto per la cucina, le rose in una mano, il biglietto nell’altra,senza sapere che fare, tali erano la sorpresa, lo stupore, quasi un senso di paura nel leggere e rileggere le parole vergate dallo sconosciuto con tanta determinazione.

Infine si abbatté di nuovo sulla sua sedia preferita, raggomitolandosi come a cercare conforto e protezione in un’altra sé, in un bozzolo prenatale, mentre lasciava cadere sul tavolo le rose che le avevano punto, con le spine, la mano che le sosteneva.   

Adagio, si disse, riflettiamo un po’, prima di farci prendere dalle paranoie. Proviamo a capire chi può essere costui che , un bel giorno, all’improvviso, senza mai aver fatto nulla per mostrarmi il suo interesse, mi invia un costoso mazzo di rose: un investimento che potrebbe anche non rendergli nulla.

Vorrei capire,pensava, se non chi è, almeno che tipo di persona è.

Non deve essere un ignorante: scrive in buon italiano, è disinvolto, ma molto arrogante.

Si mostra abbastanza sicuro di sé: questo può far pensare che sia una persona facoltosa, di sicuro non uno sprovveduto, ma uno che ritiene di possedere degli atouts,  di carattere sociale o finanziario, e, perché no, di immagine fisica  e di successo con le donne. 

Lei era ormai una donna che si avviava alla maturità. Chi mai poteva trovarla così appetibile, da mandarle fiori e da consigliarle di mentire al marito e ai familiari per nascondere il mittente di quell’imbarazzante omaggio?

E perché poi, invece di adoperare parole galanti o carezzevoli, l’aggrediva con rudezza, minacciandola, se non lo avesse assecondato,  di metterla in ulteriore disagio con l’invio di altri e più numerosi fiori?

Per finire le ingiungeva di chiamarlo a telefono, cosa a cui non avrebbe potuto sottrarsi per tema di conseguenze (ma quali?) peggiori.

 

 

Insomma, non riusciva a venire a capo di quel groviglio. Era proprio vero, non c’è due senza tre, e quei fiori erano senza alcun dubbio la terza disgrazia della giornata.

Si chiedeva oltre tutto che cosa avesse mai voluto dire con quel fare sornione il ragazzo del fioraio, quando le aveva  farfugliato: “Si chiamano ‘Morning Glory’... e  se non gli cambia l’acqua tutti i giorni...”.

Lei l’inglese non lo conosceva abbastanza, ma le pareva che non ci volesse poi tanto a capire che il nome di quelle rose suonasse più o meno come “Gloria del mattino” in italiano. Comunque, pensò, devo chiedere alla mia collega che insegna l’inglese, a scuola, cosa volesse dire quello scemo: aveva un’aria piena di sottintesi.

 

Mise i fiori in acqua, e decise che avrebbe detto in famiglia che erano un regalo dei suoi alunni ,fatto per solennizzare l’inizio dell’anno scolastico.

Poi si accorse  che già era trascorsa buona parte della mattinata, e si rese conto che aveva giusto il tempo per preparare il pranzo.

Passato il primo momento di sgomento, decise che avrebbe atteso l’evolversi degli eventi senza agire. Magari l’ammiratore “impaziente” avrebbe compreso dal suo silenzio che lei non aveva intenzione di continuare quel gioco pericoloso, che non si spaventava delle sue parole e del suo tono minatorio, che era una donna di sani principi, non facile da indurre in tentazione.  

 

L’indomani mattina andò a scuola, immemore di tutto  quel che era avvenuto il giorno precedente.

Durante il pomeriggio aveva avuto il suo bel da fare con l’idraulico,  e quando quello aveva finito di aggiustare quel che si era guastato, lei aveva pure dovuto dare una ripulita al bagno, ma questa mattina ci avrebbe pensato la colf a rimettere tutto a posto, perciò il suo unico pensiero era arrivare in orario a scuola e non mettere a repentaglio un’altra giornata di lavoro.

 

All’intervallo i ragazzi uscirono rapidamente dalle classi, e i docenti si riversarono nella sala dei professori.  

Emilia finalmente si rilassò, dopo tre ore di lezione, e,come del resto facevano molti altri, si accese una sigaretta per godersela tranquillamente, nonostante sulla porta della sala ci fosse un cartello che a lettere cubitali recitava: ”Vietato Fumare”. 

Non le passava per la testa, in quel momento, di compiere un’infrazione: fumavano tutti, dal preside agli alunni, durante l’intervallo... .

Vide poi la collega d’inglese, e la chiamò con un cenno della mano.

-Ti devo domandare una cosa-le disse, quando quella si fu avvicinata- Ad una mia  amica è accaduto un fatto strano...-e le raccontò tutto quel che le era successo il giorno prima senza pur dire che era avvenuto a lei.

-Però- soggiunse poi- la mia amica non ha poi ben capito cosa intendesse dire il ragazzo del fioraio quando... -e ripeté le parole che quello aveva detto, sottolineando l’evidente compiacimento con cui le aveva pronunciato e il sorriso malizioso che aveva stampato sulla faccia.- Che io sappia -concluse- in italiano l’espressione vuol dire “Gloria del mattino”, e non capisco che c’entri il resto di quel che ha detto il garzone del fioraio. La mia amica mi ha chiesto spiegazioni, ma io non conosco così bene l’inglese, le ho detto che te lo avrei chiesto quando ti avessi visto. -

 

L’insegnante d’inglese  si mise a ridere. –Mia cara, l’espressione può avere diversi significati, a secondo dell’oggetto che si vuole indicare.

Ti dirò i valori indicativi più noti.

L’espressione “Morning Glory” significa per l’appunto “Gloria del mattino”, ma si  può riferire anche ad un fenomeno che si manifesta nelle ore mattutine e che stupisce chi lo guarda. In tal senso si usa l’espressione per indicare uno strano e imponente fenomeno atmosferico che si verifica in Australia nel Golfo di Carpentaria, dove masse di aria calda spinte dal vento formano al mattino, specie in estate,delle nuvole dense e nerastre che si abbattono sul mare e precipitano rotolando sulla terra, oscurando l’aria per alcuni minuti, scomparendo poi senza recare alcun danno.

Il nome indica anche una pianta -nome scientifico “ipomea”- che somiglia alle nostre campanule domestiche, i cui fiori si schiudono al mattino e i cui semi vengono usati per estrarne una sostanza allucinogena molto pericolosa, che contiene un acido simile all’LSD (LSA) diffuso nell’America Centrale ed ora purtroppo da per tutto nel mondo.

La stessa espressione costituisce il titolo di diverse canzoni suonate da  gruppi o band, come Jamiroquai o gli Oasis, e dà il nome anche ai clubs dei fans dei cantanti.

Poi c’è una varietà di rose, dal colore rosso cupo o quasi nero, che hanno questo nome: appartengono forse a questa varietà i fiori inviati alla tua amica.

 

 

Infine -ed è a questa accezione che intendeva riferirsi certamente il ragazzo del fioraio- col termine “Mornig Glory” nel linguaggio popolare inglese si intende indicare un fenomeno fisico che si manifesta nel corpo dell’uomo nelle ore mattutine, predisponendolo all’accoppiamento. E’ un fenomeno naturale, non determinato da eccitazione ma solo dalla pressione del sangue che di mattina è più alta.

Così accade che, anche chi non è particolarmente attratto dalla consorte, approfitti di tale spontaneo fenomeno per mantenere vivo il legame coniugale.

E’ chiaro che chi non ha più neanche tale manifestazione, vede precluse le vie dell’amore fisico, come un fiore che manca ormai della linfa vitale.

Giocando sull’ambiguità del significato, il ragazzo voleva creare un riferimento tra le rose e il rapporto sessuale, con evidenti allusioni maliziose. E’ possibile che l’individuo che ha mandato i fiori alla tua amica volesse alludere egli stesso al tipo di relazione che li lega o che vorrebbe creare.-

La campana di fine-intervallo venne a salvarla: capiva di avere sulla faccia un’espressione di sorpresa che non avrebbe dovuto assumere se la questione avesse riguardato realmente un’altra persona e non lei direttamente. Poteva solo sperare che la collega non se ne fosse accorta. La ringraziò frettolosamente e tornò in classe, sforzandosi di calarsi nuovamente nella dimensione richiesta dal lavoro.

 

Si era dimenticata di tutto -o almeno così pareva- ma quando tornò a casa ebbe un brutale risveglio.

Rosa le aprì la porta e invece di darle il buongiorno fece un gesto che la spinse a guardare oltre l’ingresso e la porta del salone di soggiorno. Quel che vide la precipitò nel nulla. Un mastodontico mazzo di rose rosso-nere troneggiava sul tavolo da pranzo, infilato dalla collaboratrice dentro la più grande delle pentole che lei possedeva.

-Mi deve scusare, signora, ma vasi dove potevano entrare non ce n’erano, e per non farle seccare senz’acqua le ho messe qui...-

-Va bene, Rosa, non preoccuparti... c’era un biglietto?-

-No, signora, non c’era niente, io l’ho domandato al ragazzo che gliel’ha portato, ma lui mi ha risposto che il biglietto c’era nel mazzo di ieri e che lei lo sa chi glieli manda.-

-Grazie, Rosa. Mi fai una cortesia? Mi porti un sacco della spazzatura di quelli da giardino, tutti neri, ce ne devono essere nella dispensa, li usiamo quando puliamo la terrazza...-

 

Rosa scomparve, e intanto Emilia si prese la briga di contare le rose. Erano quarantotto, il doppio del giorno precedente. L’ammiratore  impaziente manteneva la parola. E, per di più, non aggiungeva nessun biglietto, come a pretendere che lei ricordasse quanto aveva scritto precedentemente.

 

Quando arrivò Rosa col sacco, le chiese di aprirlo e reggerlo.

Prese le rose che grondavano acqua e le cacciò con rabbia dentro l’involucro di plastica, mentre la donna esclamava:

-Mammamia, signora, ma che fa? Le butta? Le poteva dare a me, magari una parte, se non le voleva! Non credo che si è dispiaciuta che le ho messe nella pentola? E’ per questo che le getta nella spazzatura?-

Dalla bocca di Rosa usciva in fretta una valanga di parole, nell’estremo tentativo di scongiurare quello che a lei pareva un sacrilegio: buttare i fiori, dei fiori così belli ed evidentemente costosi, in così grande quantità....

Emilia capì che, per tacitarla, doveva darle una ragione che quella avrebbe accettato come ineluttabile.

Sapeva che era superstiziosa, e non ci sarebbe stata altra ragione che potesse convincerla di più di quella che lei aveva immaginato.

 

-Rosa, ora tu mi devi stare a sentire e mi devi promettere che quello che ti dirò non lo ripeterai a nessuno, meno che mai giù alla portiera, se ti chiederà chi è che mi manda questi fiori. Come hai visto, hanno un colore strano, diabolico. Me li hanno mandati ieri, oggi, e forse continueranno a farlo, se manterranno quello che mi hanno scritto in un biglietto.

Si tratta di un alunno. Lui non ha mai voluto studiare e io, dopo averlo molto aiutato senza ottenere da lui neanche un gesto di buona volontà, sono stata costretta a bocciarlo.

Ora la madre ha deciso di rivolgersi ad una “maga” per punirmi e farmi il “malocchio”. Lo fa mandandomi i fiori, ogni giorno il doppio dei precedenti. Oggi erano quarantotto perché ieri erano ventiquattro, domani saranno novantasei.

Io da parte mia, devo liberarmi di questi fiori, che già nel loro aspetto esteriore fanno capire di essere opera del demonio. Perciò nel sacco ci mettiamo anche quelli di ieri, e lo facciamo buttare nel contenitore della spazzatura. Se ne dovessero arrivare altri, faranno la stessa fine, ma se dovessero portarli quando io non sono a casa aspetta che io torni prima di buttarli.-

La colf era inebetita, la guardava con la bocca aperta, non sapeva che dire. Tuttavia ubbidì, e capì che era meglio non aggiungere una parola, di fronte ad una rivelazione così drammatica.

Prima di andar via, però, con uno sguardo pieno di compassione, le disse:

-Dopodomani, quando vengo, le porto un corno rosso contro il malocchio, l’ho comprato da una persona che toglie le maledizioni e a me ha fatto effetto, sono sicura che farà bene anche a lei, ma lo deve portare addosso almeno per quindici giorni.-

-Grazie, Rosa, ma quello che ti raccomando è: bocca chiusa, altrimenti ogni rimedio sarà inutile. Ci vediamo dopodomani.-

 

 

Finì di preparare il pranzo  e sedette al suo solito posto, aspettando che il marito tornasse.

Rifletteva su quel che le stava accadendo, e la mente lavorava velocemente, alla ricerca di soluzioni per liberarsi da quello che si configurava per lei come un incubo e che in sole ventiquattr’ore aveva trasformato la sua vita  sconvolgendola.

Avrebbe potuto cercare di sapere da quale fioraio provenivano le rose: aveva guardato con attenzione, ma né quel giorno né il giorno precedente aveva trovato nella confezione un cartellino o un adesivo di quello che usano i fiorai per indicare il loro indirizzo e la provenienza di piante e fiori.

Intanto, davanti la porta di servizio della sua casa, sul pianerottolo, c’era il sacco nero con le rose, che, insieme al resto della spazzatura, come ogni giorno, un  ragazzo indiano avrebbe ritirato in serata per andarlo a buttare negli appositi contenitori che si trovavano fuori dal portone del palazzo. Sperava proprio che non desse nell’occhio di nessuno che potesse immaginarne il contenuto.

Continuando a pensare, si rese conto che l’indomani, nell’ora in cui le venivano ormai solitamente consegnati i fiori- e sarebbero stati ancora più numerosi, se chi di ragione avesse mantenuto la parola- a casa non ci sarebbe stato nessuno, e probabilmente il garzone del fioraio li avrebbe lasciati in portineria, dove lei,o peggio, suo marito, li avrebbe trovati tornando all’ora di pranzo.

 

Le fu chiaro che non avrebbe dovuto permettere che ciò avvenisse, per una serie di ragioni: se non avesse potuto intercettare il ragazzo che consegnava le rose, avrebbe perso l’unica occasione di cercare di sapere chi era il fioraio o, meglio, se lui sapeva chi fosse  ad inviargliele.

Poi, non poteva correre il rischio che i fiori restassero, ingombranti e visibilissimi, per troppo tempo in portineria, esposti allo sguardo e alla curiosità di tutto il palazzo. Peggio sarebbe stato se li avesse presi il marito, che sarebbe tornato prima di lei, perché il venerdì il suo orario scolastico prevedeva che lei restasse a scuola sino alla sesta ora, il che significava che non sarebbe arrivata prima delle 14,30.

 

L’unica via d’uscita era che restasse a casa. Avrebbe fatto un’altra assenza, a costo di farsi fare un certificato dal medico di famiglia adducendo un malore che la costringeva ad assentarsi dal lavoro. Due assenze in tre giorni: la cosa le avrebbe attirato le ire del Capo, e lei, consapevole che il pover’uomo aveva tutte le ragioni del mondo per irritarsi, non aveva tuttavia altra scelta per tentare di evitare mali peggiori.

 

Invece, un’altra strada c’era, e lei non l’aveva presa ancora in considerazione.

Avrebbe potuto telefonare, ottenendo anche lo scopo di sapere chi era a divertirsi con quel gioco.

Nel momento in cui le si affacciò alla mente quella possibilità, però, le chiavi di casa  del marito aprirono la porta, e, come sempre, lui la salutò alla voce, prima ancora di entrare in cucina, dove lei era.

Si scosse dai pensieri ed assunse un’aria sorridente e disinvolta mentre gli andava incontro. Alberto la baciò, poi come d’abitudine andò a cambiarsi d’abito e lavarsi le mani prima di mettersi a tavola, mentre Emilia disponeva i piatti da portata con le pietanze che aveva preparato e tenuto in caldo.

 

 

Parlarono del più e del meno, lui le raccontò del suo lavoro in banca, degli impegni che aveva in quei giorni, e le annunciò, tra l’altro, che sarebbe dovuto andare l’indomani a Milano  per lavoro e sarebbe tornato il lunedì successivo di sera.

- E’ lungo, questo impegno lavorativo, se addirittura ti costringe a star via per tutto il fine settimana ed oltre! E’ un peccato che io non possa venire con te, ne avrei approfittato per andare a trovare Luisa ed i bambini... tu avresti potuto raggiungerci lunedì sera e saremmo rientrati martedì... Ma giusto in questo momento non posso assentarmi dalla scuola: ci sono diversi colleghi che hanno chiesto congedo e le sostituzioni sono fastidiose per tutti.  Saranno noiosi questi giorni senza te... dovrò organizzarmi con qualche amica per riempire il pomeriggio del sabato e la domenica. Se telefonando a casa non mi troverai, cercami al cellulare, spero di sentirlo e di risponderti, altrimenti mandami un messaggio e ti chiamerò appena posso. Ti preparerò la valigia oggi pomeriggio, se hai bisogno di un abito più elegante dimmelo, altrimenti ci metterò i soliti indumenti che porti in viaggio.-

-Grazie, nulla di diverso: anzi, forse qualche indumento sportivo, è possibile che mi invitino la domenica per qualche partita di tennis o di calcio a cinque, come accade di solito in questo tipo di meeting  quando di mezzo c’è un giorno festivo. Comunque stasera non preparare la cena: andiamo insieme a mangiare una pizza da qualche parte, così staremo insieme un po’ di più!

Emilia gli sorrise, e si sentiva in colpa.

Alberto si mostrava affettuoso e lei gli nascondeva qualcosa, che volentieri avrebbe condiviso con lui, ma che le circostanze le impedivano di raccontargli.

Poi, come ogni giorno, il marito prese una tazza di caffè che lei intanto aveva preparato e andò via frettolosamente con un: -Ci vediamo più tardi... ti telefono.-

 

Sparecchiò, svogliata e un po’ insonnolita, desiderosa del riposo pomeridiano che la ricompensava delle levatacce mattutine.

Abbassò le serrande del balcone, lasciando la cucina in penombra, e andò a sedersi in una poltrona del soggiorno, con la speranza che nessuno telefonasse interrompendo il suo breve momento di relax.

Per impedire che ciò avvenisse, staccò la spina del telefono e chiuse il cellulare.

Quando riaprì gli occhi si accorse che si era addormentata profondamente e che aveva dormito più di due ore.

A conti fatti, se voleva impedire che l’indomani le venisse recapitato un centinaio circa di rose, doveva muoversi con sveltezza e decisione.

Si rese conto che non sapeva cosa aspettarsi e che era assolutamente impreparata di fronte ad un evento di cui sconosceva le modalità e i contenuti perché non le era noto il protagonista principale di quella storia, che al momento era per lei un’incognita .

 

Cercò nervosamente il foglio dove aveva annotato il numero di cellulare fornito dal biglietto dello sconosciuto, prese il suo  telefonino , sedette in cucina sulla sua sedia, quasi a ricavarne conforto, e con mano tremante  digitò il numero.                                                           

Una voce registrata recitò: ”L’utente desiderato non è..”. Emilia chiuse ancora prima di aver sentito tutta la solita tiritera. Il cellulare era spento, il proprietario non rispondeva.

Avrebbe riprovato tra un po’.

Da un canto era sollevata di non averlo trovato, dall’altro, poiché questo non risolveva  definitivamente la questione, era seccata di dover perdere ancora altro tempo per sapere con chi aveva a che fare.

 

Intanto, chiamando, aveva lasciato automaticamente il suo numero tra quelli delle chiamate senza risposta: se il destinatario avesse trovato il numero sconosciuto, probabilmente l’avrebbe richiamata. Questo l’avrebbe costretta a spegnere il cellulare quando fosse stata in compagnia del marito, a meno che la telefonata non fosse giunta prima che lei uscisse.

Mentre pensava ad altre ipotesi per tentare di risolvere la questione, squillò il telefono. Lo lasciò suonare due o tre volte. Non riusciva a rispondere perché le sembrava che non avrebbe saputo cosa dire.

Tuttavia rispose.

La voce dall’apparecchio giungeva chiara, robusta, le parole scandite con buona pronunzia, senza inflessioni dialettali. Diceva di aver trovato il numero nella lista delle chiamate senza risposta, desiderava sapere chi l’avesse chiamato e perché.

 

Rispose che era stata lei e che desiderava sapere per quale motivo il mittente del biglietto che accompagnava le rose gliele avesse inviato e che cosa volesse. Non era sua abitudine, aggiunse, telefonare a degli sconosciuti, ma era stata costretta a farlo -e considerava la cosa come un’autentica violenza che le veniva imposta- per chiedere di interrompere l’invio dei fiori, il quale, piuttosto che un omaggio, si trasformava in un insulto alla sua onorabilità.

 

L’altro, con una imperturbabilità sconcertante, senza cambiare tono né rendere noto il proprio nome, rispose che non poteva né voleva parlare con lei della questione per telefono: le dava un appuntamento per l’indomani sera, alle 20, al Bar Tosti, un locale discreto sito in una strada non molto frequentata, dove lei poteva sedere ad un tavolo e aspettarlo comodamente. Sarebbe stato puntuale e si sarebbe presentato direttamente a lei perché già la conosceva.

Appena finì di parlare chiuse il telefono e lei non ebbe tempo di replicare. Provò a richiamarlo per dirgli che non aveva nessuna intenzione di recarsi all’appuntamento da lui fissato, ma non ebbe nessuna risposta.

Capì che non le si lasciava possibilità di scelta e che non si sarebbe cavata con facilità da quell’impiccio.

Per fortuna, il marito non ci sarebbe stato. Partiva di mattina, a quanto le aveva detto, altrimenti Emilia non avrebbe saputo come giustificare il fatto che uscisse per ora di cena e poi si ritirasse certamente più tardi del solito.

 

 

Tuttavia ,per evitare di essere cercata e per giustificare il fatto che avrebbe tenuto chiuso il cellulare, la sera, mentre era in pizzeria con Alberto, gli disse che l’indomani pomeriggio avrebbe avuto una riunione scolastica che incominciava alle 18, una di quelle riunioni-fiume che si sa quando cominciano ma non quando finiscono, che magari poi si concludono con una cenetta in trattoria fra colleghi organizzata all’ultimo minuto in un locale rustico.

-Non ti preoccupare se mi chiami e non rispondo -concluse- ma non posso tenere aperto il telefono mentre lavoriamo. Mandami un messaggio per farmi sapere che fai,  ci sentiremo sabato mattina, ma non tanto presto perché io vado a scuola.-

La serata ebbe tempi brevi, l’indomani era giorno di lavoro per tutti e due.

 

Andarono a dormire presto, e alle cinque del mattino, come ormai accadeva sempre più di rado, lui la cercò, svegliandola, e fecero l’amore frettolosamente, senza preliminari né tenerezze, quasi un congedo prima di partire, ed Emilia si sorprese a pensare che tutte le volte che la cosa si era verificata, si era trattato di una “morning  glory”...e lei non l’aveva capito mai.

Era per lui una necessità fisica prima che un gesto d’amore, anzi, un gesto d’amore non era affatto, ma solo uno sfogo, ora comprendeva, per tenerla buona durante i giorni della sua assenza,e si rese conto che davvero i suoi punti di vista stavano mutando, e tutto traeva origine dallo strano evento che incombeva su di lei, e stava facendo da cartina di tornasole anche per il suo ménage  coniugale.

Già aveva imparato in fretta ad imbastire bugie, lei che al marito non aveva mai mentito, anche in situazioni spiacevoli, e aveva preferito talvolta affrontarne le ire piuttosto che trovare una scusa per nascondergli la realtà di certe situazioni familiari.

 

Poi la mattinata scorse sui binari consueti -i saluti frettolosi, il lavoro quotidiano, le chiacchiere dei colleghi- e si ritrovò a casa, all’ora di pranzo, con Rosa che le aprì la porta e  senza lasciarle il tempo di entrare:-Signora! -disse, con gli occhi spalancati e ammiccanti- oggi non ne sono arrivati fiori! Forse è perché io ho portato il corno che le avevo promesso, e l’ho messo dietro la porta, così le disgrazie non possono entrare!-

-Speriamo bene, Rosa... grazie dell’amuleto ,ma dobbiamo trovargli un altro posto, perché se lo vedono mio marito o i miei figli cominceranno a chiedermi perché l’ho messo dietro la porta.-

-Questo è giusto, ma se lo nasconde non funziona, si deve vedere per avere effetto,io lo portavo appeso al collo...-

-Io non posso portarlo al collo:vado a scuola e i ragazzi mi prenderebbero in giro. Però possiamo tenerlo in cucina, legato alla pianta di basilico: si vede e non si vede, e poi rosso e verde stanno bene...-

 

Rosa non rispose, fece un cenno con la testa come a dire ”se lo dice lei...”, prese il corno e andò a legarlo ai rami della pianta indicata dalla signora, ma si vedeva che era delusa. Non ebbe altro tempo per ribattere, perché non avrebbe perso per nulla al mondo l’autobus per tornare a casa. Perciò salutò senza tanti complimenti ed uscì, tirandosi dietro rumorosamente la porta.

 

 

Emilia era priva di forze,accartocciata su se stessa, seduta sulla solita seggiola, incapace di allungare un braccio per prendere una forchetta e cominciare a mangiare quel che Rosa le aveva preparato per il pranzo.

Ondeggiava avanti e indietro, cullandosi, come quando era bambina e cercava di immaginare ancora di essere tra le braccia materne alla ricerca del sonno.

Pensò che poteva andare a dormire e che avrebbe mangiato poi, quando si fosse svegliata: questa volta però mise la sveglia preventivando un’ora di riposo, e si gettò sul letto, coprendosi con un plaid, presa da un freddo nervoso che le fece battere i denti.

 

Dopo un’ora la sveglia che suonava le sembrò un trapano che le perforava le orecchie. Il bisogno di dormire non si era evidentemente esaurito e ce ne mise per destarsi del tutto.

All’improvviso avvertì un senso di vuoto allo stomaco e si ricordò di non aver pranzato. Si alzò faticosamente, stentando a mettere a fuoco i pezzi del suo momento esistenziale, e a poco a poco si rese conto che si avvicinava l’ora in cui sarebbe andata all’appuntamento.

Considerava ormai la cosa come una necessità imprescindibile, sgradita ma preferibile al limbo in cui si era trovata per tre giorni, senza sapere come mai la sua vita, che era stata sempre indipendente anche dopo il matrimonio, si fosse trovata all’improvviso nelle mani di uno sconosciuto , senza la sua volontà.

 

Tornò in cucina, ripose nel frigo il pranzo preparato dalla colf e si fece un toast, bevve un succo di frutta e un caffè  per  svegliarsi del tutto, poi ,

come sempre quando voleva rasserenare la mente e trovare un momento di tregua, andò ad accendere il computer, aprì la posta e selezionò le mails, cancellando lo spam che quotidianamente la costringeva a far pulizia nelle mail-box dei suoi accounts.

Si accorse di non aver letto le lettere da alcuni giorni e rispose alle più urgenti, mentre constatava che mancava solo un’ora e mezza all’orario stabilito.

 

Chiuse il computer, andò a farsi una doccia e scelse un abito che non potesse dare adito a fraintendimenti : un tailleur grigio scuro, una camicia di seta bianca, un girocollo di perle con gli orecchini in parure.

Guardandosi allo specchio provò ad immaginare come la potesse considerare un altro: vide una signora di cinquant’anni molto ben portati, i capelli ancora neri, la pelle del viso rosea e distesa, senza molte rughe, lo sguardo vivace  e l’espressione volitiva.

Che potesse piacere, non era troppo esagerato. L’aspetto era gradevole, il trucco leggero non appesantiva i lineamenti, una naturale eleganza ne faceva apprezzare la persona ancor prima di avvicinarla e di sentirla parlare.

Si assicurò di avere con sé le chiavi di casa e dell’automobile, chiuse finestre e porte  e scese in garage per prendere l’auto.

 

Il traffico era intenso, le strade da percorrere affollate nell’ora di chiusura dei negozi, e quando arrivò al Bar Tosti erano già le 20,15.

Posteggiò in fretta, entrò nel bar che era in quel momento scarsamente frequentato, e scelse un tavolino in penombra, piuttosto vicino al banco dove si servivano gli aperitivi e le bibite.

Subito un cameriere si avvicinò e le chiese cosa voleva ordinare. Per darsi un contegno, lei chiese un analcolico all’arancia con ghiaccio, e cominciò a berlo a piccoli sorsi, per farlo durare più a lungo. Non sapeva infatti quando il suo misterioso interlocutore si sarebbe materializzato, e, se avesse perduto troppo tempo, lei non avrebbe aspettato più di mezz’ora.

Poco dopo un uomo dall’aspetto giovanile, i capelli leggermente brizzolati, piuttosto alto e ben vestito si avvicinò al suo tavolo e: -Posso disturbarla? Permette che mi presenti: sono la persona con cui ha parlato per telefono... Certo sarebbe opportuno che io potessi sedermi un momento di fronte a lei, ma vedo che non mi invita a farlo...-

Il tono era leggermente ironico, ma la bocca non sorrideva, né un sorriso sfiorava le labbra di Emilia. Tuttavia, per non sembrare troppo scortese, dovette accettare la richiesta dello sconosciuto, e con la mano gli fece cenno di accomodarsi.

 

L’atmosfera era tesa, il disagio di Emilia evidente, sebbene cercasse di mostrarsi abbastanza tranquilla.

-Gentile signora, spero di non esserle sembrato troppo maleducato con la mia richiesta che, lo ammetto, poteva apparire perentoria ed ingiustificata. D’altro canto, io non sono più un ragazzo e non avevo altro modo di indurla a prestarmi ascolto se non in un modo anomalo, che non poteva, come lei capirà, seguire le consuete vie di presentazione come si usa in società.

Sarebbe stato troppo macchinoso che io cercassi qualcuno che la conosceva per farmi presentare a lei, perciò ho preferito fare tutto da solo, consapevole che lei non mi avrebbe dato retta se io non avessi detto o fatto qualcosa che l’avesse costretta a vedermi e parlarmi. Perciò la prego di non considerare come intenzionali le parole apparentemente minacciose che ho scritto nel biglietto per provocarla: era solo un éxcamotage  per indurla a prestarmi attenzione. Desidero invece renderle noto che io ascolterò ciò che lei avrà da dirmi, quando avrò finito di parlare, col massimo rispetto.

Come vede, io non le ho ancora detto il mio nome, né per qual motivo l’abbia importunata. Me ne lasci il tempo e chiarirò tutto.

 

Spesso tutti noi viviamo a pochi passi da persone che non notiamo ma che invece ci conoscono e sanno tutto di noi, senza che possiamo neppure sospettarlo.

E’ questo il suo caso. Io abito non lontano da casa sua, dalle mie finestre la vedo e a volte addirittura sento la sua voce, conosco suo marito, so che lavoro svolgete, che avete tre figli, nessuno dei quali vive più con voi .

 

 

Io vivo da solo, sono divorziato, non ho figli. Detesto la solitudine, ma non ho voluto sino ad ora cercare una compagna, perché le donne di oggi sono tutte –o quasi- volubili e incostanti.

Io sono abbastanza fedele, se decido di dedicarmi ad una donna. Infatti non ho mai tradito mia moglie, sino a quando vivevamo insieme. Naturalmente , una volta divisi, ognuno ha preso la sua strada, tanto che, dopo il divorzio, lei si è risposata.

E’ da tempo che io la conosco ormai, signora Emilia, e l’ho scelta come mia futura compagna.

Non mi risponda: sento per certo che mi direbbe che lei è già sposata. Questo lo so anch’io.

Sono passati del resto i tempi in cui si poteva osservare il comandamento biblico che ordinava di non desiderare la donna d’altri, così come oggi si desidera tranquillamente la roba degli altri, sia nel pubblico che nel privato.

Nella nostra epoca, sia pure chiedendo il consenso dell’altro per rispettare almeno l’aspetto formale della questione, ognuno prende quel che gli piace o di cui sente il bisogno.

Io ho scelto lei, l’ho seguita per anni, come ho seguito suo marito.

So che i vostro rapporto è un normale rapporto tra coniugi che sono sposati da circa trent’anni, logorato dal tempo, so che suo marito è privo di slanci affettuosi, che non le fa spesso regali, che di rado la porta a cinema o a teatro.

Partite insieme molto raramente, mentre lui si muove spesso, lasciandola sola come stasera. Lei si annoia. Quando sono stato certo di questo, ho capito di avere delle buone chances, ed ho deciso di farmi avanti.

Dimenticavo: il mio nome è, per quel che può servire, Giovanni Paternò.

Ma ora, se me lo consente, vorrei sentire quel che mi risponderà lei.-

 

Emilia taceva, soverchiata dalla spietata macchinosità di quel piano, perché di un piano ben preciso si trattava, di un’appropriazione indebita, di un furto con destrezza.

Lei che di solito non si dava mai per vinta e che voleva sempre dire la prima e l’ultima parola, era incapace di organizzare i suoi pensieri tanto le sembrava incredibile tutto quel che le era stato detto e che aveva ascoltato come se non a lei ma ad altri fosse stato fatto quel discorso.

L’individuo che le stava di fronte si arrogava il diritto di frugare nelle più nascoste pliche della sua esistenza per carpirne tutti i segreti e lo faceva da tempo senza che lei ne sapesse nulla.

Era dunque possibile essere spiati, non era difficile rovistare nella vita altrui e conoscerne i più riposti segreti.

Disse infine il suo sdegno, espresse come poté, semisommersa da un senso di violenza repressa che sembrava  emanare dalla sicumera dell’uomo che le stava di fronte, il suo dissenso e l’evidente imbarazzo per una visione distorta della vita che non era certo tale quale la immaginava una persona che riteneva di poteva avere qualsiasi cosa solo che la volesse, tanto più se si trattava non di un oggetto ma di un essere umano, provvisto della sua volontà .

-Lei dimentica -aggiunse- che  io sono felicemente sposata, e non ho intenzione di  lasciare un marito che mi è fedele così come lo sono io.-

 

 

-Proprio in questo sbaglia, mia cara signora: io le ho detto -ma lei non mi ha certo bene ascoltato- che ho considerato anche suo marito, e gliel’ho detto per anticipare quello che sto per dirle.

Suo marito la tradisce. Ha un’amante da ben sei anni e quando le dice che deve partire per lavoro, le dice una bugia. E’ proprio allora che parte con  la sua bella. Anche oggi è andato via con lei. Si tratta di una collega d’ufficio,si chiama Bice S*****, se vuole posso darle l’indirizzo e il numero telefonico. Potrà controllare sul cellulare di suo marito, o come preferirà.

Lei ha una casa in campagna, neanche lontana da qui, e vi si rifugiano nei week-ends. Spesso vanno al nord, o all’estero, quando stanno via  più giorni.

Lei non ha mai dubitato del suo consorte, e le mie informazioni non arrivano sin dentro la vostra camera da letto, ma non mi meraviglierei che le possa dedicare ormai solo qualche “morning glory”, sempre più raramente, mentre lei è una donna ancora giovane e piacente, che io mi onorerei di coltivare come merita.-

 

Le guance di Emilia si erano fatte di porpora, il cuore batteva in tumulto, si chiedeva perché stesse lì ferma ad ascoltare quelle terribili parole che la inchiodavano alla realtà come una farfalla trafitta dallo spillo di un collezionista.

Se  quel che le era stato detto era la verità, le era del tutto indifferente. Tutto sommato, le assenze di Alberto, il suo disinteresse, lei aveva ben capito a cosa fossero dovuti.

Spesso lui aveva fatto il nome dell’altra, come casualmente, e, a ripensarci, anche gli amici comuni nominavano spesso quella fantomatica Bice che lei non conosceva. Ma non aveva mai parlato, non gli aveva fatto mai scenate per molte ragioni.

Se infatti il precario equilibrio in cui si trovava il suo matrimonio si fosse infranto e si fosse arrivati ad una separazione o, peggio, al divorzio, lei sarebbe rimasta sola.

Lontani i figli, senza i genitori passati a miglior vita, senza altri legami familiari (non aveva fratelli né sorelle), la sua vita sarebbe stata priva di ogni scopo.

Quel che invece la sconvolgeva era l’estrema freddezza con cui un individuo sconosciuto pretendeva di stravolgerle l’esistenza e di appropriarsi di lei, presumendo di riuscire a celare abilmente con la formale richiesta di un suo consenso la protervia della sua insostenibile pretesa.

 

-Non può presumere di determinare la mia vita così -disse, guardandolo in faccia- non sono d’accordo con le sue richieste assurde e la prego di non farsi più né vedere né sentire.-

-Non posso acconsentire, mia bella signora, alla sua proposta: piuttosto, gliene farò una io.

Ora lei è libera di tornare a casa, ci pensa per tutto domani, e domenica mattina io le telefonerò. La prego di rispondermi, altrimenti sarò costretto a venire a casa sua e ciò certamente non le farebbe piacere. Io le proporrò di vederci ancora, magari di fare una passeggiata insieme e di parlare un po’, e lei, sicuramente con le idee più chiare, mi dirà quel che pensa.

Mi ha fatto immenso piacere vederla, per la prima volta di fronte a me:  se lei insegna latino, conoscerà il poeta Catullo e la famosa lirica che dice:”Ille mihi par esse deo videtur...”. Ecco, così è stato oggi per me. Lei ancora non capisce, ma presto capirà.

Le bacio le mani, signora Emilia.-

Le baciò veramente la mano, e con un inchino salutò e andò via.

 

Il ritorno a casa fu veloce, la sua dimora, solitaria e buia, le sembrò un luogo sconosciuto. Rinchiusa la porta, non accese la luce, e rimase nell’oscurità, come sospesa nel vuoto.

Immaginava di essere in un tunnel privo di luce, in un luogo che avrebbe dovuto conoscere e che pure le era estraneo perché in esso aveva vissuto una vita credendo di essere una persona felice ed amata e invece scopriva che quella persona non era mai esistita tranne che nella sua fantasia, perché la realtà era un’altra.

 

Effettivamente, lei era una donna sola, tradita, che viveva con un uomo unicamente perché quest’uomo la teneva con sé dal momento che gli faceva comodo avere accanto qualcuno che si occupasse di lui, della sua casa, che gli preparasse pranzo e cena, tenesse in ordine i suoi indumenti, che lo confortasse nei momenti tristi, lo curasse quando era ammalato, gli tenesse compagnia quando si sentiva solo, insomma, lei era la sua badante, come si  soleva dire, con quel vocabolo orribile ma pregnante, che rivelava tutta la materialità di una funzione che si poteva esercitare anche se si era remunerati, ma che non costava nulla se a svolgerla era una moglie.

 

Ora sarebbe bastato accendere la luce per ritrovarsi fuori dal limbo ma solo per rientrare nell’inferno di una situazione che, proprio per essere stata definita impietosamente, non poteva più essere ignorata.

Era vero, lei aveva tenuto volutamente gli occhi chiusi per non essere costretta a prendere decisioni che l’avrebbero reso ancora più infelice.

Aveva cercato di costruirsi una “second life”, in cui aveva immaginato di essere una donna normale, con una vita densa di impegni lavorativi, di amicizie, di contatti culturali, si era riempita le giornate di riunioni, convegni, conferenze, concerti, teatro, cene con gli amici, tè con le amiche...

Si era compiaciuta di offrire di sé l’immagine di una donna appagata e ricercata, con una vita coniugale serena e dei figli che vivevano agiatamente del loro lavoro, frutto di un successo professionale raggiunto in giovane età.

 

Se invece, come ora accadeva, avesse già da tempo dovuto fare i conti con la realtà dei fatti, avrebbe dovuto abbandonare il marito, la famiglia, la casa, non avrebbe più potuto continuare a frequentare le stesse amicizie che, quando una coppia si divide, prendono le distanze e si schierano con l’uno o con l’altro dei coniugi, continuando a trattare uno solo dei due, abbandonando l’altro al suo destino.

 

 

Infine, anche i figli si sarebbero schierati. Già ora, la figlia, senza nulla sapere dei rapporti mutati tra i genitori, mostrava di propendere sempre per il padre, né sarebbe valso a nulla sapere che il torto era di lui: si sarebbe rifiutata di riconoscere la verità.

L’avrebbe perduta definitivamente, lei che già si teneva lontana dalla madre non solo nello spazio ma anche nella mente e nel ricordo.

I figli maschi l’avrebbero colpevolizzato: già più d’una volta, quando lei aveva avuto occasione di lamentarsi con qualcuno di loro di certi comportamenti del  padre, avevano ostentato indifferenza sottolineando che tra marito e moglie non è opportuno intervenire, e che la loro posizione li obbligava all’imparzialità.

In ogni caso, le avevano consigliato di essere tollerante e di lasciar correre, e in quelle circostanze lei aveva avuto l’impressione di leggere nelle loro parole come una levata di scudi, un mettere le mani avanti per il futuro, quando la vecchiaia dei genitori sarebbe divenuta per loro un fastidio e accudirli una triste necessità a cui cominciavano a sottrarsi sin da prima che il peggio si verificasse.

 

A poco a poco riusciva a distinguere, nell’oscurità, i contorni delle cose, per la poca luce che filtrava dalle serrande semichiuse e che proveniva dalla strada.

Appoggiandosi ai mobili e ai muri giunse nel soggiorno, sedette su un divano, si tolse le scarpe, avvertendo sotto i piedi la morbidezza dei tappeti.

Se fosse andata via dalla casa, lei e suo marito, ormai non più tale, avrebbero dovuto dividere tutte le suppellettili, la mobilia, i quadri, l’argenteria, la biancheria di casa...

Ne aveva viste, lei, di amiche sue, che avevano vissuto lo strazio  della distruzione che segue ad una separazione: le beghe assurde e le lotte all’ultimo sangue per il possesso di un oggetto, di un regalo di nozze, di un gioiello, donato per una ricorrenza, che si doveva restituire...

In verità, se a lei fosse toccato di andarsene, avrebbe preso con sé solo gli abiti, che pagava sempre col suo denaro, e i gioielli che si era comprata da sola con i soldi  delle  lezioni private, per sopperire all’indifferenza del marito che non si ricordava mai né compleanni né anniversari.

Di tutto il resto, forse avrebbe portato via gli oggetti della sua famiglia di origine, ma non avrebbe voluto nemmeno uno spillo che le ricordasse la vita trascorsa col marito, gli acquisti fatti insieme, gli addobbi immaginati, disegnati, realizzati nei lunghi anni di convivenza.

 

Nell’ombra,  sprazzi di luce dall’esterno si infiltravano con la complicità del vento notturno tra le foglie delle piante poste sul balcone, e illuminavano parte della stanza. Le sembrava di rivedere gli alberi di Natale, che lei aveva addobbato per tanti anni, che risplendevano al buio della notte, piccole luci intermittenti e misteriose, sotto cui i suoi figli avevano trovato i doni  che li avevano colmati di gioia.

All’improvviso le lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi, scesero come un velo a celare i contorni sia pure incerti delle cose, e le sembrò di  perdersi in un lago profondo e oscuro, mentre un peso le opprimeva il cuore sino a toglierle il respiro, né si accorse di scivolare nel sonno, ormai quasi inerte, incapace di reagire alla disperazione che le aveva tolto il desiderio di vivere.

 

 

Le prime luci del mattino la destarono, dolorante e anchilosata per aver dormito, vestita, sul divano, raggomitolata e infreddolita, incapace di alzarsi e percorrere la poca strada che la separava dal letto e dal conforto delle coperte.

Fuori dal sonno, la realtà riprese le sue forme come  le cose i loro contorni.

Le tornarono in mente l’uomo e le sue parole, la sua proposta  e le velate minacce, il tentativo, che non aveva neppur cercato di celare, di condizionarla rivelando il tradimento del marito e la bassezza da lui manifestata nel pretendere di potersi appropriare di ciò che gli bisognasse e che nella fattispecie era un altro essere umano.

 

Certo, aveva tentato di coglierla in un momento di debolezza, suscitando in lei il bisogno di un conforto, che, a suo modo, egli poteva offrirle chiedendole di ricominciare una vita con lui, ma lei non sarebbe caduta nella trappola che l’altro aveva organizzato per carpire la sua adesione.

D’altro canto, ormai, non poteva più ignorare l’oggettività del crollo di un rapporto coniugale le cui crepe erano di dominio pubblico. Bastava immaginare quante, fra le persone che la conoscevano, fossero a conoscenza del fatto che suo marito aveva un’amante. Certo i colleghi di lavoro di Alberto dovevano saperlo, come  gli amici dei clubs sportivi che lui frequentava.

 

Non se la sarebbe sentita di andare ancora in giro con lui e far finta di nulla.

Aveva però pensato sempre nella sua vita che quando si presentano nel corso dell’esistenza umana due alternative, non bisogna sentirsi obbligati a scegliere l’una o l’altra. Esiste sempre un terza via.

Ed era quella che lei avrebbe scelto, e con essa avrebbe trovato la libertà.

Le restava però poco tempo per decidere e per agire.

Ora doveva andare a scuola, dove per fortuna avrebbe dovuto fermarsi solo tre ore. Dopo sarebbe stata libera di decidere della sua vita.

 

Appena arrivò a scuola  passò dalla presidenza e avvertì il preside che doveva parlargli: alle undici sarebbe tornata per un colloquio.

Aveva scelto di dire un’altra menzogna, ma ormai la strada che aveva intrapreso era tutta in discesa, e  il destino la obbligava a percorrerla a precipizio.

Quando, dopo tre ore, si ripresentò, sedette e con calma apparente disse che per gravi motivi di famiglia era costretta a prendere tre mesi di aspettativa per motivi personali.

-Le toglieranno lo stipendio! Si rende conto di quel che sta facendo -disse il suo Capo, sconvolto- che cosa mai la può indurre a prendere una tale decisione?-

-Devo andare da mia sorella- rispose Emilia - che sta molto male ed ha bisogno di assistenza. Ho sempre fatto il mio dovere, lei lo sa, ma ora mia sorella ha forse pochi mesi di vita, io sento non solo il dovere ma anche la preoccupazione che mi spinge ad andare. Avrei potuto addurre motivi di salute, ma non mi sembra onesto: preferisco dire la verità .

D’altro canto non ho alternative: lo stato non riconosce ai fratelli e alle sorelle il diritto di essere assistiti, e per questo pagherò anche finanziariamente. Ho qualche soldo da parte, mi basterà per questo periodo: poi si vedrà.-

Il preside non seppe opporre nessun’altra ragione perché lei tornasse indietro sulla decisione presa.

Le diede un modulo da compilare e firmare, lei scrisse e lo consegnò.

-Le darò mie notizie: parto in serata, non so quando potrò chiamarla, ma mi farò sentire.-

Salutò e senza voltarsi uscì dalla stanza e dalla scuola.

 

I suoi genitori le avevano lasciato, morendo, tra l’altro, una casa che lei non aveva potuto affittare, che ancora conteneva mobili e oggetti antichi di famiglia.

Sarebbe stata un’ottima possibilità quella di trasferire là il poco che avrebbe portato via con sé e di lasciare tutto in un posto sicuro  in attesa di realizzare un nuovo progetto di vita  del tutto diverso da quello che aveva già vissuto e da quello che altri avrebbero voluto farle vivere.

 

Tornò a casa sua mentre suonava mezzogiorno, prese alcune valige e rapidamente mise dentro ciascuna di esse uno strato di vestiti, pellicce, golf, pantaloni e abiti vari. Poi tirò fuori dai cassetti della stanza da pranzo i contenitori di panno con le posate d’argento, dono di sua madre, alcuni piatti dello stesso metallo, staccò un paio di piccoli quadri antichi che le appartenevano dai muri, e dispose tutto nelle valige  ricoprendo con altri indumenti.

Tirò fuori dallo spogliatoio alcune capaci borse e qualche zaino che i suoi figli adoperavano per lo sport e li riempì di libri e dischi. Prese il suo computer portatile, una piccola stampante e lo scanner.

Selezionava gli oggetti con una velocità supersonica, staccando spine e avvolgendo fili.

Per ultimi prese gli oggetti da toilette, quelli del trucco, alcune paia di scarpe, i gioielli personali che mise in un portagioie dentro la borsa.

Lasciò volutamente aperta la piccola cassaforte che conteneva i suoi oggetti preziosi, con in vista l’anello di fidanzamento che le aveva donato il coniuge, la fede nuziale e alcuni altri oggetti che lui le aveva regalato in trent’anni di matrimonio.

Prese un foglio di carta da lettere e scrisse poche righe al marito, dicendo che il motivo per cui  andava via lui lo conosceva. Lei riteneva che non se ne sarebbe in fondo troppo dispiaciuto dato che già l’aveva rimpiazzata da tempo. Andava via e non sapeva quando e se sarebbe tornata.

Avrebbe avuto sue notizie a tempo debito, forse dal suo avvocato. Non era necessario che la cercasse perché non sarebbe tornata indietro sulle sue decisioni. Portava via con sé alcune cose, ma solo quelle di sua proprietà o che le erano pervenute in eredità dai suoi genitori.

In verità lasciava nella casa ancora molto di suo, ma che non si preoccupasse: non gli avrebbe svuotato l’appartamento. A tempo opportuno, avrebbero parlato -ma civilmente- anche di questo. Gli chiedeva solo di non offrire in dono alla sua nuova compagna oggetti che le appartenevano: dopo tutto c’erano ancora i figli a cui potevano spettare le cose di loro proprietà.

 

Mise il foglio in una busta e la depose sul tavolo dell’ingresso.

Erano le tre del pomeriggio. Si vestì con indumenti sportivi, prese i documenti d’identità, passaporto compreso, e chiamò un taxi.

Essendo sabato, la portineria era chiusa, nessuno l’avrebbe vista andar via.

Radunò valige e borse, le mise nell’ascensore. Chiuse la porta a doppia mandata e scese giù, per caricare i bagagli nel taxi.

Quando uscì dal cancello del palazzo per la strada non c’era nessuno. Si chiese se, da qualche finestra che lei ignorava, l’ammiratore impaziente stesse vedendo che lei andava via.

Depositò i bagagli nella casa dei suoi genitori, prese dalle valige alcuni indumenti e generi di prima necessità, infilò tutto in una borsa.

Avvertì il tassista che avrebbe avuto necessità di fermarsi per acquistare qualcosa.

Strada facendo infatti comprò un’altra scheda per il cellulare e la sostituì alla vecchia, così che non potessero trovarla se le avessero telefonato.

Quando arrivò all’aeroporto si rese conto che non mangiava da più di ventiquattr’ore. Consumò un sandwich e un caffè, e comprò un pacco di biscotti e una piccola bottiglia d’acqua minerale per precauzione.

Fece un biglietto per una città della Francia tra le meno note, assicurandosi che l’aereo partisse entro l’ora successiva. Prima di affrontare il check-in comprò un libro tascabile, e, oltrepassato il controllo d’ingresso, aspettò con impazienza trattenuta che chiamassero il volo.

 

Solo quando l’aereo si fu staccato da terra tirò un sospiro di sollievo.

 

 

 

                                     

 

 

Kate Catà.

(Clelia Di Stefano)