una rosa d'oro

 

Commenti e critiche


  

LA  RIVOLTA  DELLE MADRI

 

 

Una caratteristica molto estesa in tutti i campi delle azioni umane contemporanee è quella del diffondersi a macchia d’olio di fenomeni considerati anormali per la loro drammaticità e per la natura degli individui che ne sono protagonisti.

Intendiamo riferirci a quel genere di delitti che si consumano nella cerchia familiare e che vedono i figli uccidere i genitori, le madri e i padri uccidere i figli.

 

Silvestro Lega - La Madre - 1884

 

Da qualche tempo, non appena uno di questi efferati  delitti viene compiuto, i mass media sembrano fare a gara per cercare su tutto il territorio nazionale eventi simili, e ne  diffondono la notizia con un insistito trionfalismo, quasi a sottolineare che il fenomeno si ripete sino a diventare una peculiarità di certe regioni o di certi livelli sociali del nostro paese.

 

Ci fu il periodo in cui una ragazza uccise madre e fratello con la complicità del giovane fidanzato, poi è stato il momento  della scomparsa di un numero imprecisato di bambini piccoli in seguito ritrovati morti perché vittime di pedofili o di ricatti perpetrati nei confronti dei genitori o di vendette trasversali.

 

Ma su tutti questi filoni che intrigano l’opinione pubblica e danno materiale per gli articoli dei giornali e le notizie della televisione, il primo posto lo occupano i delitti commessi da giovani madri che uccidono i figli.

 

Non diciamo nomi, non vogliamo parlare  di casi particolari,perché non facciamo cronaca, ma vorremmo analizzare le motivazioni prossime e remote di azioni che appaiono contro natura e certamente inducono ad una profonda riflessione su fenomeni che, poiché si ripetono sempre più spesso  e in un paese per cui la maternità è stata considerata sempre per le donne come un sacro ideale cui immolarsi sino al dono di sé, debbono certamente avere un movente comune e ripetibile che si ripresenta sempre più spesso e va ricercato non solo a livello psicologico ma anche sociologico e antropologico.

 

LA MATERNITA’

 

Non c’è dubbio che non si nasce con la capacità di essere madri. La reazione di una bambina di dodici anni di fronte all’arrivo della prima prova della sua femminilità è di paura e di sgomento, che aumentano se le si spiega il segreto del potere femminile: solo così, per questa via, si può diventare madri.

 

E l’adolescente, pur avendo ancora una mentalità infantile, sente subito il peso della rivelazione.

Chiede con gli occhi dilatati cosa mai c’entri con l’essere mamme quel tributo di linfa vitale che la perseguiterà ogni ventisette giorni e mezzo,  considera un evento che non la riguarda la descrizione del formarsi e del crescere di una nuova creatura nel suo grembo futuro, la nascita del figlio come qualcosa che a lei non potrà mai capitare.

 

Volgendo l’attenzione verso il passato, non è difficile scoprire ciò che la società e la famiglia hanno sempre fatto per abituare le bambine sin dalla prima infanzia all’idea di diventare madri.

I reperti archeologici di siti  appartenuti alle più antiche civiltà di tutti i popoli conosciuti hanno rivelato tombe infantili dove sono state trovate bambole dei materiali più svariati, segno evidente che è insito nel DNA  dell’uomo il bisogno di inculcare il concetto della maternità e delle cure parentali nelle nuove generazioni per assicurare il propagarsi della specie.

 

Berthe Morisot - La culla - 1872

 

Nonostante tutti gli sforzi fatti dalla famiglia e dalla comunità per persuadere una adolescente che è bello sposarsi e formare  una  famiglia per cui sacrificarsi al fine  di accrescere la società di nuovi uomini e donne, queste ultime hanno guardato  sempre la  maternità con timore.

Basta pensare a quel che significò per secoli andare  a nozze con la prospettiva di morire di parto al primo figlio.

 

Se si esaminano gli alberi genealogici delle dinastie regnanti nei paesi dell’Europa Occidentale, che sono i documenti di più facile e immediata consultazione relativi al passato, si potrà agevolmente notare come ogni sovrano, nell’attesa di uno sperato erede, fosse costretto a risposarsi più volte, poiché la moglie moriva di parto, e con lei concludeva la breve esistenza anche il figlio, tante erano le complicazioni allora irrisolvibili che comportava la nascita di un bambino.

 

La donna quindi ha sempre saputo che procreare vuol dire rischiare la vita, perché anche oggi si può morire affrontando il parto, sebbene le cause non siano per lo più le stesse, ma essendosene aggiunta una che è difficile prevedere e che oggi più che mai si rivela esiziale: l’errore umano.

Ma una volta superato lo scoglio della nascita, dopo infinite fatiche e dolori, che cosa spinge una donna, per lo più ancora giovane, ad uccidere la sua creatura?

Ancora una volta l’antichità classica ci propone un modello, per ricordarci che non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Il nome di Medea oggi ricorre nel pensiero piuttosto spesso, perché non è purtroppo raro il caso che una madre si serva dei figli arrivando ad ucciderli per ricattare o punire il padre: ma non tanto per questo essa viene ricordata, quanto per il fatto che costituisce un esempio emblematico  della possibilità che una madre si sbarazzi di loro, negando loro la vita, proprio lei che gliel’ha data.

 

Non è normale accettare da adolescenti l’idea della maternità. Sono necessari anni di solerte e tenera cura da parte delle madri per abituare una bambina a diventare donna e ad accettare l’idea che “essere mamma è bello”.

Solo se la fanciulla che cresce avrà avuto dinanzi ai suoi occhi l’immagine di una madre  sollecita e tenerissima potrà accettare a sua volta l’idea di essere felice di avere un figlio proprio.

 

E anche così, se la maternità arriverà troppo presto, se si inserirà improvvisa e non desiderata nella sua vita  e interromperà i programmi che la giovane madre aveva fatto per sé, se essa vive in solitudine senza l’aiuto di qualcuno che possa consentirle di essere, almeno per una piccolissima parte, ancora padrona del suo tempo, allora il figlio sarà visto come un nemico, come un mostro partorito contro voglia che tutto invade e tutto divora, senza aver alcun riguardo  per la libertà e la personalità della madre.

 

LA GESTAZIONE

 

La creatura recata in grembo per nove mesi dall’iconografia classica viene presentata come un tenero germoglio di cui la madre spia con cura e attenzione l’accrescersi e il prendere corpo, nella trepida attesa del momento in cui vedrà la luce.

Ma sarebbe utile comprendere che non per tutte le madri una gestazione, con tutti i problemi che arreca alla gestante, possa essere considerato un evento positivo.

 

Per molte donne, la gravidanza è un periodo infausto. Non sembri un’analisi troppo disumana questa in cui si tenta di scrutare in fondo ai pensieri di molte donne per cercare di comprendere quali siano i meccanismi che poi potranno portare  le stesse,divenute madri, a liberarsi del frutto del proprio grembo.

 

Nausea, insonnia, il corpo che, da sottile e curato, oggetto di diete e di mille  attenzioni prima, ora si appesantisce e perde la linea, la proibizione di rifiutare il cibo che deve essere assunto perché la nuova creatura ha bisogno di sostanze vitali per crescere, e, nello stesso tempo, di fronte ad una grande fame, determinata dall’insicurezza e da altri motivi psicologici, il consiglio del medico di non ingrassare più del necessario per evitare un parto troppo laborioso sono tutti proiettili che bombardano continuamente la gestante.

 

La quale, specialmente se è primipara, si sente oggetto di infiniti obblighi che le vengono imposti da tutti quelli che la circondano ma sopra tutto dalle necessità di qualcuno che ancora non esiste come essere umano definito ma già comanda e detta le sue leggi all’intera comunità familiare .

A poco a poco dovrà rinunciare alle sue abitudini alimentari, alla conduzione-tipo della sua giornata, mentre le si imporrà la necessità di continuare il suo lavoro nonostante i disturbi che potranno affliggerla e che cominciano a manifestarsi sin dal mattino.

 

Pesantezza alle gambe, sonnolenza o insonnia,lentezza dei movimenti, dolori al basso ventre e mal di schiena aumenteranno col passare dei mesi. Il bambino comincerà a muoversi, sempre più stretto nel suo ventre man mano che  crescerà.

 

Tutto ciò potrebbe essere motivo di gioia per una donna che desidera una maternità: ma una donna normale,oggi, la maternità la desidera solo dai trentacinque ai quaranta anni e passa, se sino a quel momento non ha mai avuto un figlio.

Prima di quel tempo, una donna dell’epoca in cui viviamo  può desiderare un figlio perché pensa che il suo uomo lo voglia, perché ciò può servirle per dare un senso alla sua vita se non ne è soddisfatta, per veder realizzato il suo ideale di famiglia.

 

Insomma, se non ha un motivo valido per volere essere madre, la donna di oggi vede la maternità come un incidente cui non può sottrarsi anche se non lo desidera.

Se lavora,sa bene che il lavoro che fa per scelta o per vivere ne risentirà: checché se ne dica, le donne in carriera  quando prendono un congedo per maternità sanno che  usciranno “dal giro” e resteranno fuori dalla competizione lavorativa per mesi, lasciando spazio a chi vuol percorrere l’iter professionale in fretta e intende superarle.

 

DOPO IL PARTO

 

Il figlio appena nato, poi, avrà bisogno di cure assidue per almeno un anno,e ciò vorrà dire che la madre dovrà accudirlo personalmente per tre o quattro mesi, per poi lasciarlo nelle mani di una persona fidata o di famiglia, ma, dove non sia possibile, di una babysitter delle cui qualità non si può essere assolutamente certi o presso una struttura, pubblica o privata, dove il piccolo sarà uno dei tanti bambini affidati a personale di incerte capacità ma che sicuramente non potranno sostituire al meglio la figura materna assente.

 

Mosè Bianchi - Donna con bambino – fine ‘800

Biblioteca Ambrosiana - Milano

 

 

In quest’ultimo caso , non è difficile che la madre si carichi di complessi di colpa e che non riesca a metabolizzare la sua assenza, o che, al contrario, rigetti il senso di responsabilità nei confronti del figlio e lo consideri come una fastidiosa appendice di cui liberarsi appena possibile, lasciandolo qua e là, alle cure di chi capita, specialmente se le condizioni economiche non le consentono di avvalersi di un’assistenza regolare e qualificata che  comunque ha un costo abbastanza elevato.

 

Dopo un giorno di lavoro la madre torna a casa stanca. Tutto quello che vorrebbe sarebbe andare a dormire, spesso senza neanche mangiare.

Invece, ecco davanti a lei un’intera serata di fatica.

Le viene consegnato da chi  se n’è preso cura sino a quel momento, il figlio (o i figli, se sono più d’uno), che ancora deve essere nutrito, pulito e addormentato, mentre il resto della famiglia -come minimo il solo marito-aspetta da lei un cenno di attenzione, una cena, un sorriso.

 

Nessuno sa a quali risorse nascoste riesca ad attingere una donna per mettere insieme il lavoro e la famiglia, la cura dei figli e un rapporto sereno col compagno della sua vita, nessuno comprende veramente, se non un’altra donna, quanto possa costare riuscire ad armonizzare tutte le componenti di un ménage così complesso che include la gestione delle necessità familiari e un compito lavorativo fuori casa.

 

QUANDO LA DONNA NON LAVORA

 

Non tutte le donne accettano con nervi saldi e determinazione situazioni simili: si suole dare la colpa al fatto che, oggi più di prima, la donna lavora.

Certamente, se non lavorasse, avrebbe più tempo a disposizione: ma siamo certi che sarebbe contenta della sua esistenza tutta votata alla famiglia? Siamo sicuri che riuscirebbe a trovare degli spazi individuali dove riuscire a sentirsi ancora persona, dove esprimere le sue capacità intellettive e creative, dove non sentirsi solo strumento delle necessità altrui e padrona del suo tempo e della sua volontà?

 

Si dice: “ma è una donna che non lavora!” e si sottintende che sia una fortunata, che non debba uscir di casa e abbandonare la cura della famiglia e dei figli ad altre mani o relegarla alle poche ore di libertà che le rimangono, sottraendole persino al sonno.

Eppure, anche una donna che non lavora può nascondere frustrazioni e scontentezza, depressioni e senso di ribellione per sentirsi costretta a dipendere dal marito o da chi per lui per poter disporre di un po’ di denaro o di un po’ di tempo libero, per non sentirsi solo uno strumento delle necessità altrui.

 

Emilio Longoni - Due bambini - 1888

Biblioteca Ambrosiana - Milano

 

In questo contesto, anche il figlio più adorato può rivelarsi all’improvviso come un ostacolo  a vivere la propria esistenza. Una dicotomia straziante invade l’animo della madre:il figlio è lì,fonte di amore e di odio, se un estraneo lo sfiorasse, volesse recargli danno o rapirlo sarebbe pronta a dare la propria vita per la sua salvezza, ma con la stessa immediatezza in un momento di dolore e di follia sarebbe disposta ad ucciderlo quando ai suoi occhi diventa lo strumento della sua tortura.

 

Nell’iconografia cristiana è famosa un’immagine, che spesso sino all’inizio del XX secolo si trovava riprodotta  a stampa sui testi liturgici o persino ricamata sulle tovaglie d’altare, disegnata a sbalzo sul metallo dorato dei tabernacoli. Era un uccello, evidentemente una madre, che lacerava il suo petto col becco onde farne uscire il sangue di cui cibare i figli che attendevano a bocca aperta il nutrimento.

 

Non di rado i sacerdoti, che amministravano la confessione ad una madre che manifestava la sua disperazione e la stanchezza di dover badare ai figli che distruggevano poco a poco la sua vita, indicavano l’immagine dell’uccello che nutriva i figli di sé stesso.

Questo, dicevano, è l’esempio che si deve seguire: per i figli una madre deve dare tutta se stessa senza risparmio.

 

IL MUTAMENTO DEI TEMPI

 

Ma i tempi sono cambiati.

La famiglia da patriarcale si è trasformata in mononucleare, e i suoi componenti sono il padre,la madre e i figli.

Tenuto conto che gli altri familiari più o meno prossimi vivono per conto loro, la giovane madre si ritrova spesso sola a gestire i rapporti con la prole, in assenza del marito che passa la giornata al lavoro.

Anche se la donna lavora,per  la suddivisione dei ruoli nell’ambito della coppia è d’uso che sia lei a farsi carico dell’educazione e della cura dei figli.

Il padre,oggi, non di rado condivide con la madre quest’ultima incombenza, ma le ore lavorative ,che solitamente sono in maggior numero rispetto a quelle della madre, lo tengono lontano dalla possibilità di occuparsi costantemente dei figli.

 

La solitudine, come emerge dalla terribile casistica dei delitti consumati nell’ambito familiare, pare sia la prima concausa  ad indurre una madre ad alzare la mano su suo figlio.

Spesso tutto comincia come una punizione inflitta dalla madre a scopo educativo: ma appena scatta il meccanismo punitivo, lei spesso perde il controllo, e, travolta da un raptus ingovernabile, si abbandona ad un impeto di violenza repressa che si libera andando “ultra petita”, al di là delle intenzioni.

 

Ma ormai tornare indietro non si può. Come un fiume in piena, un sordo rancore anima e spinge la donna sino ad uccidere infierendo sulla propria creatura che non riconosce più come sua.

Non di rado tutto viene rapidamente dimenticato, rimosso, cassato al punto da essere negato anche di fronte all’evidenza dei fatti.

 

Da  questa fase è generalmente assente il padre, la cui presenza servirebbe anzitutto a correggere in tempo il comportamento errato della madre per non farlo degenerare, e, a monte del momento specifico in cui tutto avviene, potrebbe giovare a farla sentire meno sola di fronte ad un compito che non di rado la soverchia e la travolge.

 

NON UNA GIUSTIFICAZIONE MA UNA RACCOMANDAZIONE

 

Abbiamo tentato di spiegare i meccanismi perversi che si mettono in moto quando accade il delitto che riesce difficile in assoluto giustificare e per cui trovare delle attenuanti.

 

Il nostro non è un tentativo  di scusare un gesto dettato da una momentanea e assurda follia, ma è un avviso, una raccomandazione che va rivolta in primis al padre, poi anche a tutti quelli che sono vicini per parentela e affinità ad una madre che svolge da sola il suo compito, particolarmente all’inizio del nuovo ruolo che non di rado la vede di fronte a problematiche  prima mai affrontate e spesso per lei non facilmente risolvibili.

 

Potrebbe sembrare assurdo arrivare a dire che, quando una madre uccide, la colpa è anche del padre, di un padre non sufficientemente presente e non autenticamente partecipe del ruolo che la natura gli ha assegnato, dal momento che per avere un figlio è necessario essere in due, non solo nel momento del concepimento ma anche in quello dell’allevamento e della cura parentale.

 

E’ dunque un appello ai padri, ma anche alla società tutta: non lasciamo sole le giovani madri, non consideriamo con indifferenza  il proposito di una coppia di scegliere ,per abitarvi appena sposati, una casa solitaria, isolata dal contesto abitativo, cerchiamo di circondare con l’affetto e

l’amore le nuove coppie che hanno bambini piccoli.                                                                

                        

  

    Eugène Delacroix - Medea - 1838

 

E’ lì che si annida il pericolo, è lì che può scoppiare la tragedia: Medea è sempre in agguato, e non bisogna dimenticarlo.

 

 

Kate Catà

 

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