una rosa d'oro

 

Narrativa


 

 

IL  VOLO  DEL  GABBIANO*

 

Racconto di

Clelia Di Stefano

 

 

Gli ultimi raggi di sole  si andavano spegnendo dietro la montagna.

Il mare era ormai di colore incerto, tra grigio sporco e celeste sbiadito, in cielo si distingueva a stento una pallida falce di luna nuova.

Tornavano a casa, stanchi di una giornata di vacanza, ma di quel tipo di vacanze da cui bisogna riposarsi.

-Accendi i fari -disse la moglie- non si vede quasi più la strada!-

Lui attese un attimo, quasi preso da una stanchezza che gli impediva sia pure un gesto facile come quello necessario a sollevare una piccola leva vicina al volante.

Ma nel momento in cui stava per aprire le luci fu distratto da qualcosa che procedeva davanti alla sua auto con estrema lentezza.

Frenò quasi all’improvviso, o avrebbe investito quello che a prima vista, nella poca luce del tramonto, gli parve un pollo, o forse un colombo, sebbene le dimensioni fossero alquanto più grandi.

Fra le proteste della moglie, che non si era accorta di nulla, incurante del pericolo di essere investito da qualche auto che potesse sopraggiungere, scese dalla macchina e si avvicinò all’animale, cercando di capire di che specie si trattasse.

Era un volatile, certo, provvisto di ali lunghe e di un forte becco adunco, le penne superficiali grigio-azzurre, quelle inferiori bianche, sporche di fango e ingiallite. Lo sguardo di lui scese sino alle zampe, e si accorse che erano corte, tozze e palmate,come quelle di un’anatra o di un’oca.

Non si trattava però né dell’una né dell’altra.

Si avvicinò piano, sempre aspettando che l’uccello, ora lo vedeva meglio, voluminoso e pesante, prendesse il volo all’improvviso. Quello invece continuava a camminare, con evidente difficoltà, sull’asfalto caldo del sole di tutto il giorno, e non accelerava l’andatura malgrado la vicinanza di un essere umano, anzi, quando lui finì per raggiungerlo e lo prese, non reagì, ma si lasciò carezzare, e quasi si accucciò tra le sue braccia.

Poiché la moglie continuava a chiamarlo, timorosa che potesse essere investito da qualche mezzo in arrivo, tornò verso l’automobile, e a stento, dato che l’uccello era ingombrante, riuscì ad entrare e a sedersi, mandando indietro con una mano il sedile.

-Ma è un gabbiano! -disse la moglie- Cosa ti salta in mente di prendere un gabbiano? Non sai che è proibito portarli a casa, sono una specie protetta, se ti scoprono ti prendono una bella multa!-

-Sì, disse lui, ma non vedi che è in difficoltà? Se lo lasciamo lì, in mezzo alla strada, lo investiranno e morirà, certamente sarà stato costretto ad atterrare mentre era in volo, ed ora non è in grado di proseguire... io stesso l’ho visto per miracolo, quasi non si distingueva da lontano, poi quando l’ho preso non ha neanche provato a scappare... ora che ci penso, credo che sia un animale che ha una certa dimestichezza con gli uomini, per lasciarsi prendere in braccio e starsene così buono, senza reagire... comunque, adesso lo portiamo a casa, lo rifocilliamo, domani poi alla luce del giorno si vedrà...-

Il gabbiano fu sistemato nel sedile posteriore, sotto lo sguardo preoccupato della moglie, e ripresero il cammino.

Mentre stavano per arrivare, notarono che il negozio del pescivendolo vicino casa era ancora aperto.

Lui scese dall’auto e andò a comperare un po’ di pesce per il gabbiano. Erano pesci di vario tipo, gli ultimi della giornata, e il pescivendolo, conoscendo i suoi gusti, si meravigliò della sua scelta, ma lui non disse per cosa gli servivano.

Appena risalì in macchina con il sacchetto del pesce, l’uccello ne percepì l’odore e si agitò un po’: doveva essere molto affamato.

Quando infatti arrivarono a casa e il pesce fu messo su un piatto di latta che serviva solitamente per il cane, il gabbiano lo divorò in pochi bocconi.

In giardino versarono dell’acqua in un vecchio recipiente per farlo bere, e lui col grosso becco lo afferrò, lo trascinò distante da loro, vi si immerse, diguazzando e battendo le ali, spargendo l’acqua per ogni dove.

Infine bevve quella che restava, con evidente difficoltà, perché era ormai poca , e si fermò a guardarli, come a chiederne altra. Sembrava che dovesse parlare, tanto il suo sguardo e la testa inclinata da una parte erano eloquenti, e l’acqua gli fu data in abbondanza.

Intanto il suo arrivo aveva alterato gli equilibri domestici: il cane, fino a quel momento signore incontrastato del suo territorio, aveva dovuto essere messo alla catena, altrimenti avrebbe divorato l’intruso, che per altro gli passeggiava davanti provocandolo senza dargli alcuna importanza, nonostante quello, innervosito , abbaiasse, invano zittito dai padroni.

Per la notte gli trovarono un rifugio in una gabbia, un po’ piccola per lui, e lo misero al chiuso, per evitare sgradevoli sorprese.

La mattina dopo, mentre il cane legato alla catena protestava vivacemente, il gabbiano fu lasciato libero di muoversi nel cortile posteriore della casa. Intanto i bambini del vicinato lo avevano visto, e la cosa aveva suscitato il loro interesse.

Ognuno faceva le sue osservazioni. Nessuno di loro aveva mai visto da vicino un gabbiano, e perciò non lo identificavano come tale.

Poi il figlio maggiore del suo salvatore venne a guardarlo e i bambini gli chiesero: -E’ un pellicano?-

-No -rispose- è un gabbiano...-

-E come si chiama?-

-Veramente non ha un nome, lo abbiamo trovato ieri sera...-

I bambini parlottarono un po’ tra loro, poi uno si rivolse al ragazzo e: -Senti -gli disse- siccome sembra un pellicano ma non lo è, lo potremmo chiamare Pelli, solo la metà del nome, così, perché  gli somiglia... tu che ne diresti?-

 

 

-Per me va bene, ma non so quanto resterà qui, potrebbe volare da un momento all’altro...-

-Volare? -dissero in coro i bambini, e uno soggiunse:- ...ma voi perché non lo mettete in gabbia?-

-Non si può, perché deve restare libero! Se lui si è fermato qui è perché gli manca la forza di volare, sarà stanco o un po’ malato, benché non sembri, lo abbiamo guardato bene, le ali sono sane, le zampe pure, è solo affamato e assetato, da ieri sera ha mangiato e bevuto molto, può darsi che decida di andarsene e in quel caso non lo potremo trattenere: ha diritto alla sua libertà!-

Tra i bambini i pareri erano contrastanti: alcuni dicevano che era giusto lasciarlo libero, altri sostenevano che correva ugualmente dei pericoli, se qualche gatto o altri uomini malvagi lo avessero maltrattato o fatto morire.

-Non pensiamoci -disse il ragazzo- lasciamogli il tempo di decidere, poi si vedrà...-

Intanto il padre, spinto dalla moglie, aveva telefonato alla sede di città delle Guardie Forestali, per informare qualcuno di aver trovato un gabbiano, e di non sapere se potesse tenerlo o se dovesse consegnarlo alla LIPU, sebbene non sembrasse ammalato e fosse integro e ben rifocillato.

Un maresciallo di turno gli disse che poteva ospitarlo, purché non lo maltrattasse e lo lasciasse libero, nel caso l’uccello avesse voluto andarsene.

Una mattina un vicino di casa si affacciò alla finestra da cui si vedeva il cortile dov’era il gabbiano e fece alcune fotografie. Aveva l’aria di chi volesse andare a denunciare a chi di ragione che qualcuno deteneva illegalmente un gabbiano in cattività.

Il padre fu costretto ad andare dal vicino a spiegargli come stavano le cose, e che lui aveva denunciato ciò che era accaduto e non aveva intenzione alcuna di trattenere presso di sé l’animale contro la di lui volontà. Il vicino non sembrò molto convinto di ciò che l’altro gli diceva. 

Il gabbiano si era abituato presto a convivere con i suoi ospiti, o, forse, come aveva pensato chi lo aveva salvato, aveva vissuto in cattività prima di allora.

Era però tranquillo, mangiava con appetito e aveva persino familiarizzato col cane, che ora lo guardava sempre incuriosito ma aveva smesso di abbaiare.

Erano ormai passati sei giorni, i componenti della famiglia tornavano a casa e chiedevano di Pelli, di quel che avesse fatto mentre loro non c’erano.

A forza di diguazzare nel recipiente pieno d’acqua si era ripulito, e le penne erano più lucenti, se le lisciava accuratamente col lungo becco adunco per tutta la giornata.

Poi una mattina si accorse di essere pronto.

Guardava già da qualche giorno il muretto che separava il cortile da una stretta striscia di terra oltre la quale c’era il mare. Lui non lo vedeva, ma ne sentiva l’odore e, nel silenzio della notte, percepiva il rumore delle onde che si infrangevano sulla battigia.

L’istinto di certo gli diceva che quello era il suo mondo, che lo attendeva e a cui lui anelava.

Là, oltre quell’ostacolo, c’era la sua libertà, sebbene qui, dove ora era, non gli fosse negata.

Il ragazzo lo osservava ogni giorno e aveva notato che l’uccello spesso guardava il muretto, ma non si era mai troppo avvicinato ad esso.

Quella mattina uscì nel cortile, diede al gabbiano qualche pesciolino che l’uccello mangiò distrattamente. Poi si volse per rientrare in casa, ma qualcosa lo fece tornare indietro: c’era stato un lieve frullo d’ali. 

Pelli era volato sul muretto, guardava da lassù verso il mare: lo vide e lo riconobbe, e seppe che era arrivato il momento. Allargò le ali, sproporzionate rispetto al corpo, larghe, con le penne dritte e accostate le une alle altre, le batté vigorosamente più volte, per sentire l’ostacolo dell’aria che doveva essere vinto per librarsi in alto, e, lento, pesante eppure sorretto dall’enorme apertura alare, si sollevò in volo, puntando verso il cielo, verso occidente, lasciandosi dietro il sole, e subito galleggiò nell’aria, mentre come per un richiamo da ogni dove arrivavano altri gabbiani che lo circondarono e lo accompagnarono nel volo, sempre più lontani, piccoli ormai sull’orizzonte, sino a confondersi con la linea di confine tra cielo e mare.

 

 

 

 

* Questa è la narrazione di un fatto realmente accaduto.
Si ringrazia Alfredo Guerriero per la collaborazione.

 

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