una rosa d'oro

 

Qualche buon libro,  qualche buon film


 

  Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano

   

  di Kate Catà
 

 

Un film tratto da un libro porta con sé un pesante fardello: la supposta e pretesa fedeltà al testo da cui è stato ispirato.
Ma le considerazioni inevitabili a cui va incontro non si fermano qui: ci si chiederà anche se il regista ha dato del libro una rilettura, un’interpretazione personale,se ha voluto sottolineare certi aspetti più che altri tra quelli che emergono dalle righe del supporto cartaceo.
Perciò,essendo queste caratteristiche quasi d’obbligo quando si parla di sceneggiature tratte da opere letterarie,pare non se ne possa prescindere senza scontentare chi legge una critica cinematografica.
Il lettore ,infatti,vuol sapere se valga la pena di andare a vedere quel film se non lo ha visto, o di leggere anche il libro se ha visto solo il film, o, se ha visto e letto, vuol sapere se c’è un altro che la pensi come lui sull’argomento,vuole, insomma, un certo conforto,per non sentirsi solo con le sue idee.
Già:perché una delle caratteristiche del nostro tempo è quella di cercare sempre ombrelli sotto cui ripararsi, greggi a cui accostarsi e in cui integrarsi, è,insomma, il bisogno di ‘appartenenza’, perché l’originalità e l’unicità sgomentano, collocano in una nicchia fatta di solitudine che pochi hanno il coraggio di sopportare.
Che è poi il caso del protagonista-o,forse, di ambedue i personaggi principali- di questo racconto in parole e immagini, di cui ci occuperemo ora e qui.



Un piccolo libro


Il testo letterario da cui è tratto il film ,più che un romanzo, si può in verità considerare un racconto lungo.
Uno dei due personaggi attorno a cui è costruito il libro è un ragazzo,l’altro un uomo d’età.
L’io narrante è il fanciullo divenuto adulto, ma la narrazione inizia con una serie di eventi che non è immaginabile possano essere stati vissuti da un bambino di undici anni, anche se a raccontare gli avvenimenti del suo passato è ora un uomo fatto.
E’ infatti difficile accettare l’idea che un undicenne, per quanto sia cresciuto in fretta e abbia l’aspetto di un sedicenne, decida –ed è lì più che altrove il dubbio –di accostarsi alla sua prima esperienza sessuale, consumata con professioniste mercenarie che egli paga con i soldi presi dal suo salvadanaio e faticosamente raggranellati, e a cui poi, con gesto,questo sì,certamente infantile, regala il suo orsetto di peluche,il giocattolo preferito di tutti i bambini.
Entrati così crudamente nell’universo esistenziale- piuttosto limitato,in verità –del ragazzo, diremo di lui che l’autore dà qualche altra caratteristica del personaggio: è ebreo ma non praticante, per la negligenza dei genitori . 
La madre lo ha abbandonato,lasciando il marito e scegliendo di andare a vivere con un altro uomo, e il padre, un uomo fallito, senza lavoro, sempre più depresso e incapace di occuparsi del figlio che abbandona a sua volta, finisce poi col suicidarsi.

 


Il ragazzo è solo: l’unica parvenza di assistenza,l’unico barlume di interesse umano nei suoi confronti lo trova in un uomo che non è della sua razza, anche lui per certi versi un solitario, uno che tutto il quartiere dove abita chiama “l’arabo” perché ha la pelle scura,i capelli ricci e neri,ormai striati di bianco per l’età,un commerciante, nella cui bottega il piccolo ebreo spesso si reca per acquistare del cibo in scatola o, nei momenti-e sono tanti- in cui non ha denaro, per rubare qualcosa da mangiare.

Quest’uomo è Monsieur Ibrahim,l’altro personaggio –chiave della storia,che la critica ufficiale ha esaltato, circondandolo di un’aura di pietà,di umanità,di amore disinteressato nei confronti del fanciullo.
In effetti,così come lo presenta l’autore,Eric-Emmanuel Schmitt,uno scrittore molto conosciuto in Francia dove è nato e di preferenza vive,Monsieur Ibrahim è un uomo il cui orizzonte non va,nella realtà, al di là dei confini della sua piccola bottega,una bottega, come lui afferma, che è aperta dal lunedì alla domenica, ininterrottamente, dove si possono trovare tutti i generi di articoli e di merci necessari per vivere.
Monsieur Ibrahim non si muove mai dal suo sgabello: è l’icona di un’umanità immobile che aspetta di assistere agli avvenimenti del mondo esterno, sapendo che, quando essi accadranno, la coinvolgeranno comunque e la loro eco giungerà sino all’interno del suo rifugio, come giunge nel suo negozio, inaspettata ma pur senza cambiargli la vita, addirittura Brigitte Bardot.
L’arabo-che di se stesso nega d’essere arabo e afferma di essere nato in Turchia- diventa l’interlocutore obbligato di Momo, come lui chiama il ragazzo ebreo, che è dimentico delle sue origini e del suo credo religioso, come del resto Monsieur Ibrahim è scarsamente legato all’Islamismo, di cui pratica una versione mistica e piuttosto lontana dall’ortodossia musulmana, il sufismo, 
L’anziano mercante fa comunque spesso riferimento al ‘suo’ Corano,e questo atteggiamento sta forse ad indicare, secondo le intenzioni dell’autore, un particolare senso di libertà dalle costrizioni e dalle consuetudini cui è legato per contro il mondo dell’estremismo islamico.

I due personaggi offrono l’uno all’altro ciò di cui ognuno è privo ed ha bisogno: il ragazzo diventa un compagno,quasi un figlio per l’arabo, ma non è così evidente in lui,quasi per tutta la narrazione, una forma di affetto nei confronti di Monsieur Ibrahim se non per il fatto che ,dopo l’adozione,talvolta lo chiama ‘papà’.
Monsieur Ibrahim vede in Momo se stesso bambino e poi adolescente,
ne percepisce il dramma interiore nel momento dell’abbandono da parte del padre. 
Ma ancora più intenso è il dolore per la morte di un genitore che, nel lasciare volontariamente la vita,dimostra di disattendere ancora una volta le aspettative e le speranze del figlio, che sente la morte del padre più come un tradimento che come una dolorosa assenza.
L’umanità di Monsieur Ibrahim è altruista ma non educativa: infatti egli si sostituisce a Momo nella pietosa funzione di riconoscere il corpo del padre morto, cosa che l’adolescente non ha la forza di fare, ma per consolare il ragazzo pensa bene di dargli dei soldi per andare ancora in cerca dell’amore mercenario.
La storia poi non ha, contrariamente a quel che alcuni critici sostengono, intenti moralistici: è duramente realistica, e dà per vincenti sentimenti di vendetta e di rancore, come quando la madre di Momo si rifà viva per riabbracciarlo e lui nega di essere suo figlio,nonostante l’evidente sofferenza di lei.
Poi chiede invece a Monsieur Ibrahim di adottarlo:il che avviene non senza infinite difficoltà burocratiche, che sottintendono come sia difficile credere che un arabo possa divenire sia pure immaginariamente padre di un ebreo, anche se né l’uno né l’altro praticano attivamente la propria religione.
Il premio che padre e figlio si concedono per l’avvenuta adozione è un’automobile, che nessuno dei due sa condurre.
Frequentano insieme delle lezioni di guida e finalmente partono con l’auto nuova al cui volante sta Momo, che ancora non ha l’età per guidare e perciò viaggiano di notte.

Il viaggio è una sorta di Odissea dei nostri tempi: è dettato dal bisogno e dal desiderio di Monsieur Ibrahim di ritornare al paese natio, quella Mezza Luna d’Oro che è una specie di Eden sperato e irraggiungibile, in cui l’arabo dovrà arrivare da solo,percorrendo senza Momo l’ultima parte del tragitto. 
Ma durante il percorso, la narrazione indugia nel presentare campioni vari dei discorsi che intercorrono tra Momo e Monsieur Ibrahim, quasi a voler ulteriormente caratterizzare i due personaggi:e qui le ovvietà si sprecano, per sottolineare certi aspetti caratteriali dell’uno e dell’altro. 
Che vengono poi citati dalla critica come esemplari di un nuovo ed originale modo di vedere la vita.
Ma non ci pare nuovo che si noti la ricchezza o la povertà di un paese dalla qualità della spazzatura che vien fuori dalle case, come non è straordinario che un arabo ami lavorare con lentezza, rinunciando magari a maggiori guadagni pur di non affaticarsi e di non affrettarsi.

E’ vero che Monsieur Ibrahim insegna a Momo a sorridere quando si rivolge alla gente, per sciogliere la diffidenza altrui e invitare il prossimo alla simpatia:ma questi sorrisi che il ragazzo ebreo finisce con l’usare ad ogni occasione hanno un che di meccanico e persino di falso, diventano un boomerang che ricade sullo stesso Ibrahim.

 



La parte finale del racconto riscatta in qualche modo le ovvietà precedenti:Monsieur Ibrahim, felice di stare per giungere al paese natio, decide di andare da solo guidando l’auto che non sa manovrare.
Ma si schianta contro un muro, rimane gravemente ferito,riesce appena a salutare per l’ultima volta il ragazzo che sente dentro di sé finalmente urgere la piena dei sentimenti: l’unico essere umano che si è preso cura di lui veramente lo lascia per sempre, e affiora dai suoi occhi il pianto.
Ma ora è il momento di sorridere, ancora una volta non per piacere ma per necessità,per dare conforto e non per ipocrisia, mentre Monsieur Ibrahim, come lui stesso dice, “sta andando a raggiungere l’immenso”.
Momo,tornato a Parigi, teatro della prima parte del racconto, una Parigi povera dei quartieri popolari come erano negli anni ’50, scopre -e anche questo appare scontato- di avere ereditato i beni di Monsieur Ibrahim e la sua bottega, ma anche il suo libro del Corano, con dentro due fiori secchi e la lettera di un vecchio amico.
Nella sua nuova dimensione,reso più umano dal dolore ma anche dall’amore, Momo rivede la madre e comincia a frequentarla, portandole, dopo essersi sposato, anche i figli .
Ma, avendo ereditato la bottega di Monsieur Ibrahim, tutti lo chiamano “l’arabo”, poiché il suo negozio è sempre aperto, anche di notte e di domenica.


Nessuna conversione


Nella narrazione, come si può vedere leggendo attentamente il testo, nessuno dei protagonisti si converte ad un nuovo credo religioso, e non si può certo ,come molti hanno fatto, parlare di ‘esemplare tolleranza religiosa ’ né di ’convivenza pacifica tra due persone di credo diverso ’,
poiché la questione religiosa non viene affrontata dai personaggi in questione , tranne per un vago riferimento all’esistenza di Dio e alla possibilità di elevarsi a Lui pregandoLo come ognuno sa e può, sia pure con la danza dei Dervisci.
Il valore del racconto sul piano dei meriti letterari è relativo, l’impianto della narrazione risente sicuramente del fatto che lo scrittore è anche e soprattutto autore di opere teatrali per le quali ha raggiunto un buon successo anche fuori dalla Francia.
Molti critici si sono affannati a cercare illustri precedenti sul tema illustrato nel romanzo ,ma, a parte il fatto che niente di veramente e totalmente nuovo c’è sotto il sole, si può ben affermare che la fortuna del libro è dipesa certo dal film che se ne è tratto, per l’attualità del soggetto che ,per obbedire alle leggi del mercato, viene forzatamente interpretato come un episodio esemplare della possibilità di convivere partendo da esperienze esistenziali diverse quali possono essere quelle di un ebreo e di un arabo. 
Il che ci pare di aver sufficientemente dimostrato che non corrisponde ai fatti narrati. 



Il Film


Perseverando nell’intento di fare apparire il film fedele ai presupposti del testo letterario, la critica cinematografica si è affannata a sottolineare l’ottimismo che, a parere di molti, pare trasudi da ogni immagine di questo plot,che narra passo passo gli stessi contenuti di cui si è parlato per il libro.
Il regista francese François Dupeyron e lo stesso Eric-Emmanuel Schmitt hanno scritto la sceneggiatura,l’ambientazione, come si è detto, è collocata in una Parigi degli anni’50 secondo alcuni, ’60 secondo altri, una città che non è quella che conosciamo dall’iconografia filmica usuale, più moderna ma anche meno vera, perché appare ricostruita artificialmente, come appunto può esserlo da gente che non l’ha vissuta perché forse ancora non era nata, e non la può neanche immaginare attraverso le testimonianze perché questo passato è troppo recente per essere divenuto storia.
Le ovvietà,nel film come nel libro, sono frequenti, ma il film ha dalla sua un interprete eccezionale,quell’Omar Sharif che ha interpretato film di alto livello ma anche di pessimo conio, e che qui salva la dignità del lavoro cinematografico con la sua consumata abilità dando a Monsieur Ibrahim una caratterizzazione che sembra la sola possibile per il personaggio del libro di Schmitt.
In confronto al libro,il film sembra scorrere con un ritmo più costante, senza fratture , tutto teso a dimostrare, attraverso una sorta di parabola ascendente, il miglioramento della qualità della vita del giovane Momo dal momento in cui egli incontra l’ancora di salvezza dell’amicizia con Monsieur Ibrahim. 
Del quale a noi pare lecito pensare che non sia stato meno fortunato del suo giovane figlio adottivo per aver trovato,nella parte finale della sua vita, la luce di un interesse e di un legame pseudo-familiare che dà sapore e motivazioni alle fatiche di un’intera vita. 
Un’ultima annotazione per l’editore italiano del libro: per compensare la brevità del testo,ha unito al lavoro di Schmitt un articolo di critica su Parigi e sull’ambiente del romanzo,di altro autore, che è chiaramente un riempitivo e che sarebbe stato meglio non aggiungere.


Kate Catà

 

 

 

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