una rosa d'oro

 

Qualche buon libro,  qualche buon film


 

    Il Consiglio d'Egitto

  

  IL LIBRO                   

 

E’ una Sicilia borbonica quella che Leonardo Sciascia descrive nel suo
libro “Il Consiglio d’Egitto” dato alle stampe nel 1963 ma è anche una Sicilia
(i fatti narrati sono collocati nel 1782) percorsa da fremiti illuministici:
l’Isola infatti, con Napoli e Milano, fu tra le prime regioni europee a conoscere
e recepire le nuove idee che provenivano dalla Francia,per merito dei viaggiatori
stranieri che giungevano frequenti nel profondo sud dell’Italia attirati dalla fama
della bellezza dei luoghi e dai resti di civiltà del passato che vi avevano lasciato
larga impronta di sé.
Ma i viaggiatori non erano gli unici latori dei messaggi culturali che provenivano d’Oltralpe:
i precettori francesi erano d’obbligo presso le migliori famiglie siciliane nobili o soltanto ricche;
le corrispondenze frequenti tra i nobili e gli intellettuali siciliani da una parte
e gli uomini di cultura e i filosofi francesi dall’altra erano alimento quotidiano per
la conversazione dei salotti del tempo e così si diffondevano le idee.
Ormai, del resto,la stampa si era affermata e i trasporti divenivano più veloci.
Libri e giornali giungevano nelle città siciliane e soprattutto a Palermo, sede del Viceré,
che ,nel periodo in cui si svolgono i fatti narrati da Sciascia, era proprio il
famoso Caracciolo , illuminista e riformatore, nemico giurato della nobiltà terriera siciliana
di cui voleva abolire i privilegi e che lo ricambiava di pari antipatia.

“Il Consiglio d’Egitto” fu scritto da Sciascia nel primo periodo della sua
produzione narrativa e tratta concetti ricorrenti in altre opere dello
scrittore siciliano,ovvero il tentativo di pochi di instaurare il mondo
della Ragione di matrice illuministica,l’avvio contrastato delle riforme che
stentano a decollare, il fallimento della realizzazione di un mutamento presente
che conserva tuttavia la speranza di cambiamenti futuri nella società: atteggiamento,
quest’ultimo, che muterà nelle opere successive, amaramente pessimistiche.
Anche se si tratta di un romanzo storico ambientato a Palermo sul finire del
XVIII secolo, secondo quella che fu una scelta costante di Sciascia,
si intravedono allusioni ad un eterno e sempre riproposto modo di far
politica che connota e contraddistingue il nostro paese e ne sottolinea
l’ambiguità e i compromessi.

La trama -del libro e del film – parte dall’occasionale naufragio di
un ambasciatore marocchino lungo le coste siciliane prossime a Palermo,
allora capitale della Sicilia e sede del viceré Caracciolo, il quale chiama ,
dietro indicazione del Cappellano di corte,l’unica persona di cui si pensa
e si crede di sapere che nella città parli l’arabo, onde fare da interprete
all’importante personaggio : un frate maltese,venuto in Sicilia
in qualità di cappellano dell’Ordine dei Cavalieri di Malta,tale Giuseppe Vella.
Costui è un umile religioso che vive di espedienti, non ultimo quello
di interpretare i sogni della povera gente e di fornire, in base ad essi,
dei numeri da giocare al lotto, attività che gli consente di lucrare qualche soldo per vivere.
Dell’occasionale presenza dell’ambasciatore e delle qualità
(piuttosto inesistenti in realtà) di traduttore del frate,
approfitta il Cappellano di corte, un Monsignore che ha ritrovato
nella biblioteca di un famoso monastero palermitano un codice scritto
in lingua araba e vuol sapere di che cosa si tratti.
L’ambasciatore dice che il codice contiene la narrazione della vita
di Maometto, ma il frate, resosi conto che nessuno conosce l’arabo
e che pertanto le parole dell’ambasciatore restano per tutti incomprensibili,
dà spiegazioni arbitrarie di quel che il dignitario marocchino ha detto
e si impegna a tradurre egli stesso il codice. Partito l’ambasciatore,
il Vella comincia a fornire la presunta traduzione del testo che, a suo dire,
è un importante documento comprovante i secolari privilegi di cui godono i nobili siciliani.
Lo scaltro frate ha compreso che ciò potrà accrescere la sua importanza,
e infatti comincia a ricevere benefici dal Monsignore e persino una cattedra
all’Università per insegnare l’arabo.
Non contento di ciò, fabbrica un nuovo codice che dice di aver trovato
e il cui titolo è “Il Consiglio d’Egitto”, sempre scritto in una lingua
che dovrebbe essere l’arabo (ma che poi risulterà una commistione tra arabo e maltese)
e ne fornisce la traduzione. Ma questa seconda impostura ( poiché di frode si tratta)
ha lo scopo di attirare l’attenzione e la benevolenza della Corona:
infatti il Vella mira in alto, sperando di dimostrare al Re che la nobiltà
detiene un potere che non le è dovuto e che il Sovrano è il solo ad aver
diritto ai privilegi che i nobili e la Chiesa hanno sempre considerato loro appannaggio.
Ciò è troppo per i Siciliani: comincia a serpeggiare il dubbio che l’Abate Vella
abbia ingannato i nobili e il Sovrano, che non conosca l’arabo e che sia autore di
un enorme falso.
Tra i primi ad avere questo dubbio è l’altro personaggio-chiave del libro:
l’avvocato Di Blasi ,un intellettuale borghese di buona famiglia,illuminista convinto,
avversario della nobiltà e dei suoi privilegi .
Egli ha avuto modo,nell’ambiente culturale in cui si muove, di conoscere l’Abate Vella ,
e,dopo dieci anni e più di frequentazione,intuisce che nel personaggio e nelle sue
azioni c’è qualcosa di falso.
Va ripetendo a se stesso e agli altri che “..ogni società genera il tipo d’impostura….
che le si addice..”, che in Sicilia l’impostura è di casa da secoli,
nella politica e nella società, persino fra gli uomini di Chiesa.
Il Di Blasi è un avvocato,un uomo colto ammiratore del Razionalismo e dell’Illuminismo francese,
e vedrebbe bene la fine della monarchia e l’avvento di una repubblica in Sicilia
per infrangere la tracotanza dei baroni.
Capisce che le idee francesi e un eventuale aiuto della Francia non sarebbero
però ben visti dal popolo siciliano, che conserva sempre vivo il ricordo del
lunedì dei Vespri, mentre la Chiesa contribuisce a fomentare odio contro i
Francesi tuonando dai pulpiti contro i giacobini e il giacobinismo e coloro che,
pur essendo siciliani, aderiscono a quelle blasfeme teorie straniere.
Il Di Blasi,con un gruppo di congiurati, va preparando appunto una rivoluzione:
vi parteciperanno dalla città e dalla campagna. Ma qualcuno non regge all’idea
dell’impresa e lo denuncia al Viceré.

L’Abate Vella,anche lui in discrimine,comprende che la sua impostura è stata scoperta
e tenta di salvarsi coinvolgendo i potenti che si sono serviti di lui perché ne
avrebbero avuto un vantaggio. Tuttavia, come il Di Blasi, viene arrestato.
La nobiltà freme,pensando al pericolo scongiurato di una rivoluzione e alle
proprietà salvate in extremis dalla protervia e dalla frode di un miserabile frate.
La tortura, che prima è stata appannaggio della Santa Inquisizione abolita dal Caracciolo,
si abbatte sul Di Blasi ,ne fiacca il vigore fisico ma non ne doma la mente e lo spirito.
L’Abate Vella, venuto a conoscenza delle terribili sofferenze sopportate stoicamente
dal Di Blasi, sente nascere dentro di sé il desiderio di approvare l’idea
della rivoluzione come strumento di distruzione della tirannide,
come mezzo per abbattere il potere illimitato della nobiltà e il
suo sovrano disprezzo per gli umili che lui, quand’era solo un povero frate,
aveva più volte sperimentato.
E chissà se quel che egli ha fatto non è stata in fondo una piccola
rivoluzione privata contro i potenti, che non avrebbe potuto combattere
con le armi, ma con le parole sì .

Il Di Blasi è condannato a morte per decapitazione.
L’Abate Vella scrive al Re impetrandone la benevolenza,
per salvare se stesso e scagionare il Monsignore, ammettendo
sue parziali colpe e giustificandole come tentativo di rendere
maggiormente gloriosa la Corona.
Intanto le campane suonano a morto:la mannaja si è abbattuta sul capo del Di Blasi .

 




 

IL FILM

 

La critica ha accolto in maniera difforme l’uscita del film tratto dal romanzo di
Leonardo Sciascia : il pubblico non ha manifestato molto interesse per un’opera che
probabilmente non è stata capita, è stata poco pubblicizzata, è rimasta brevemente nelle
sale cinematografiche e che , alle persone sprovviste di un minimo di cultura,poteva sembrare,
col titolo che aveva, la narrazione di qualche fatto riferibile all’epoca dei Faraoni.
Certo, qualche difetto c’è nell’impostazione e nella risoluzione della trama cinematografica
che esaspera,rispetto al libro, alcuni aspetti dei caratteri dei personaggi o li
esalta eccessivamente.
Il regista Emidio Greco, dalla rilettura personale del testo, mostra di voler trarre
l’impressione che il Vella sia non già un povero frate che coglie al volo l’opportunità
di cambiare la propria posizione economica e sociale, ma un uomo che con sagacia e astuzia
si beffa di un’intera casta, la nobiltà,che ha sempre esercitato il suo potere sui poveri
e gli indifesi.Una sorta di vendicatore, dunque, e non il furbo frate maltese,
con molta capacità di ingannare ma anche con certi limiti, di cui parla Sciascia.
Il film nel primo tempo mostra la corda comica, si configura cioè come una
“commedia degli equivoci” , e sottolinea i lati grotteschi di azioni e personaggi.
Ma è il secondo tempo che dà la misura del significato più profondo del messaggio
che il regista vuol trasmettere.
Con la figura dell’avvocato Di Blasi,intellettuale illuminista e repubblicano,
capo di una congiura che ,scoperta, lo porterà ad una condanna a morte,
Greco esce dal ridicolo e si immerge nel dramma. E’ anche qui,però, che il film mette
in evidenza i suoi limiti: un’eccessiva lunghezza di certi dialoghi e il fatto che l ‘opera,
essendo stata co-prodotta dalla RAI,è certamente destinata anche al piccolo schermo .
Se il film nasce per le sale cinematografiche deve avere delle caratteristiche che
non possono essere le stesse dei lavori destinati alla TV.
Tuttavia nel complesso il giudizio globale sul lavoro è positivo:
a buono l’impianto figurativo,ottima la sceneggiatura,sfarzosi gli arredi e la
ricostruzione della società dell’epoca, bravi gli attori,tra cui Silvio Orlando
che delinea,così come lo vede il regista, un furbo Abate Vella, mentre Tommaso Ragno,
esperto attore di teatro,interpreta l’avvocato Di Blasi.
Il film non nasconde di voler accostare il presente al passato,
in una realtà contestuale in cui la verità e l’inganno giocano ancora dei
ruoli molto pesanti e incisivi sulla società.
Lo spettacolo risulta nell’insieme abbastanza godibile e solo la consapevolezza che
per i contenuti appare destinato ad una certa fascia di pubblico può giustificare
la scarsa affluenza degli spettatori, abituati ormai a vedere con interesse solo films
in cui abbondino belle ragazze poco vestite.
Perciò non perdoniamo alla produzione la scelta di aver inserito nella
locandina di presentazione del film , alle spalle di Vella-Orlando,
un’immagine di nudo che avrebbe dovuto attirare l’attenzione del pubblico
più sprovveduto e incrementare il numero degli spettatori. (Robin)

(Cfr. recensioni de La Repubblica,La Stampa,Il Corriere della Sera,L’Unità, Il Messaggero )

 





 

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