una rosa d'oro

 

Narrativa


 

 

 

UNA STORIA DI POVERA GENTE

 

Racconto di

CLELIA DI STEFANO

 

 

Le giornate scorrevano tutte uguali nella povera casa di mattoni di creta e paglia. Seduta al vecchio telaio di legno, la fanciulla tesseva, come le aveva insegnato la madre, una coperta per il suo corredo di futura sposa.

Era un lavoro semplice, la lana grezza l’aveva filato lei stessa.

Ora, dopo aver creato l’ordito, intesseva la trama, cercando di realizzare un decoro facile il cui profilo era stato disegnato da un ignoto autore con un pezzo di carbone su uno strofinaccio di tela in un tempo passato.

Il modello, ormai quasi sbiadito, era stato tramandato di madre in figlia e conservato gelosamente dentro la vetusta cassapanca che conteneva l’esiguo corredo di famiglia.

Costruita per sua nonna e poi ereditata da sua madre, aveva contenuto i loro corredi ed ora avrebbe ospitato quello che lei andava realizzando per sé in vista delle nozze.

Il disegno che avrebbe ornato la coperta andava prendendo forma a poco a poco, ad ogni aggiunta dei fili di lana sospinti dalla barra del telaio che lei maneggiava con tutta la sua forza giovanile. 

Rappresentava una colomba in volo, sospesa in alto su un nido dove stavano i suoi piccoli, con il becco aperto in attesa del cibo che la madre avrebbe portato per loro.

Mentre le mani andavano veloci sul telaio, lei pensava e immaginava quale sarebbe stato il suo futuro di sposa e di madre, se anche lei avrebbe avuto la gioia della maternità, quanti figli avrebbero riempito di voci e giochi la casa che ora il suo futuro sposo stava costruendo, aiutato da parenti ed amici, sottraendo il tempo al lavoro che praticava per vivere, e al quale, seppure umile, egli dedicava con passione le sue giornate.

Era primavera, l’ora del mattino appena iniziato recava con sé un’aria leggera profumata di fiori di campo.

Come sempre si era levata per tempo, alle prime luci dell’alba, e dopo una rapida abluzione si era messa a lavorare.

Secondo le usanze del suo popolo, tra la richiesta del pretendente e le nozze dovevano passare dodici mesi, quanti erano necessari  a lui per costruire una nuova abitazione per la nuova famiglia e a lei per completare il corredo di nozze che già ogni donna cominciava a realizzare lavorando assiduamente con le proprie mani, sin da quando era ancora bambina e la si metteva dinanzi al telaio che ancora riusciva appena a manovrarne i meccanismi con la punta dei piccoli piedi.

Ora erano trascorsi sei mesi da quando lui l’aveva chiesta in moglie alla madre di lei.

 

La casa di sua madre, in cui lei era nata e che ancora avrebbe abitato sino al giorno delle nozze, era costituita da un unico ambiente.

In fondo c’era un focolare, di fronte al quale delle pesanti tende isolavano uno spazio rettangolare, celato agli occhi indiscreti, che ospitava il talamo coniugale, dove, come in tutte le case, si svolgeva la parte più intima della vita familiare: le nozze, le nascite, la morte.

Ma mentre le case dei ricchi avevano zone a parte per la notte, nelle case dei poveri lo spazio dove si viveva era unico, e si suddivideva in base alle necessità quotidiane.

Esso non aveva grandi finestre, ma piccole aperture rettangolari, come delle feritoie, da cui entrava l’aria e poca luce, che non si chiudevano né d’inverno né d’estate. In compenso, la porta d’ingresso della casa era grande, e si apriva su un portico da cui si intravedeva la campagna circostante, illuminata dal sole che si faceva più luminoso e caldo con l’avvicinarsi del mezzogiorno.

Mentre la fanciulla lavorava, la luce era divenuta, a poco a poco, quasi abbagliante, come per un riflesso del sole in uno specchio.

Infastidita da quel raggio penetrante che invadeva la casa, lei alzò gli occhi dal lavoro, scese dal sedile del telaio e si mosse verso l’uscio per andare ad abbassare la tenda di corda che lo schermava nelle ore meridiane.

Guardando però oltre la porta, vide una figura che si stagliava netta tra lo stipite e il pavimento e che si proiettava  verso l’interno della casa. A ben vedere, era proprio da lì che proveniva la luce abbagliante che l’aveva distolta dal suo lavoro: l’immagine era quella di un uomo, ma era quasi incorporea. Ne aveva l’apparenza, ma non la consistenza.

 

 

 

Era straordinariamente bello, uno sguardo puro e trasparente, che le penetrava nell’anima e le faceva sentire che, lungi dal temere la presenza di quell’essere estraneo e a lei ignoto, poteva fidarsi di lui come di un vecchio amico.

La sua veste sembrava di lino, ma ondeggiando ad un leggero vento che lo accompagnava nell’incedere aveva la trasparenza translucida dell’acqua, dai riflessi azzurrini. In mano teneva un giglio bianco dal lungo stelo, e lo porse alla fanciulla, che lo prese esitante, mentre la sua mente percepiva le parole che lui le rivolgeva, pur senza emettere suoni.

Era un indirizzo di saluto, che riconosceva in lei qualità spirituali eccelse: la sua straordinaria chiarezza, l’innocenza e l’incontaminata purezza, tali da averle meritato la Grazia Divina e l’Amore assoluto e incondizionato del Creatore.

Poi disse altre parole, che la avvolsero di un fulgore più abbacinante della luce di cui era circondato al suo giungere, e lei se ne sentì pervasa sino ai più intimi recessi del suo essere: inutilmente tentò di protestare, sostenendo che quel che le veniva chiesto non sarebbe mai stato possibile perché la sua verginità non era mai stata compromessa da alcuno.

Non aveva bisogno di parlare, perché appena la sua mente elaborava un pensiero il messaggero lo percepiva come se fosse stato espresso con parole.

Ma quel che egli aggiunse fu tale che a lei non restò altro da fare, ormai priva di qualsiasi altra volontà se non di quella che sentiva agitarsi nell’animo e nella mente, che essere consenziente alla volontà di Colui che  lo aveva mandato, e che avvenisse pure in lei ciò che era stato da lui detto.

Poi il messaggero scomparve, e lei fu presa come da uno strano torpore, che le tolse ogni forza e la fece cadere in un sonno profondo, non appena ebbe raggiunto il grande letto matrimoniale dietro la tenda.

Passarono diversi giorni da quella strana visita, né lei ne fece cenno ad alcuno. Nemmeno alla madre, a cui pure era molto legata, né al vecchio padre. Poi, quando giunse lo shabbath, e il suo promesso sposo tornò da lei dopo una lunga settimana di lavoro che lo aveva tenuto lontano, gli disse che voleva parlargli.

Quando lui arrivò, lei gli andò incontro, ma non lo abbracciò.

Le usanze della sua gente non consentivano ai promessi sposi neanche di sfiorarsi prima che fossero celebrate le nozze.

 

  

 

Egli tuttavia non poté fare a meno di guardarla: la sua promessa sposa, pur nella modestia della veste che indossava e nel capo coperto dal velo che le donne del suo popolo portavano sui capelli, aveva un incedere diverso, una luce nuova negli occhi, un sorriso dolcissimo sulle labbra.

Ricordava bene il volto di lei, da quando l’aveva lasciata la settimana prima: ne richiamava alla mente ogni espressione, che aveva impresso nel suo cuore sin dall’inizio della loro conoscenza.

Egli amava di lei ogni cosa: l’innocenza dello sguardo, la purezza delle azioni, la trasparenza dei pensieri.

Ma oggi, dopo pochi giorni, all’improvviso gli appariva diversa, come irraggiungibile.

Lei lo invitò a sedersi su una pietra levigata che stava, come un sedile, ai piedi di un albero di sicomoro, proprio davanti la casa, e si accomodò accanto a lui.

Gli disse della visita che aveva ricevuto, dello strano personaggio che era venuto a trovarla per annunciarle una notizia a stento credibile, che avrebbe sconvolto la loro vita: ella sarebbe stata madre, di un bambino a cui avrebbe dato un nome che le veniva imposto, e che questo Figlio, di cui lei non conosceva il padre -né mai lo avrebbe conosciuto-  sarebbe stato il salvatore di tutta l’umanità, non solo di quella esistente, ma anche di quella futura.

Ciò sarebbe accaduto per volontà dell’Altissimo, che l’aveva scelta tra tutte le donne, lei, povera ed umile, ma piena di grazia ai Suoi occhi.

Il promesso sposo era sbigottito e sconvolto: quali storie fantastiche gli narrava questa creatura che egli aveva ritenuto casta e pura, per mascherare forse un tradimento? Quali bugie, assolutamente incredibili, gli raccontava, per indurlo a prestarle fede? Eppure il suo volto sorridente era innocente, come splendenti e puri apparivano i suoi occhi: non sentiva di poterla condannare.

Egli non sapeva cosa fare, né cosa dire. Di carattere mite, fiducioso, era un uomo giusto, che non trascorreva facilmente all’ira: ma gli si poneva un difficile problema.

Conosceva bene le leggi del suo popolo: se una donna, promessa sposa ad un uomo, fosse rimasta incinta prima delle nozze, c’erano solo due vie di scelta: se l’uomo che era il suo promesso sposo avesse riconosciuto il figlio come suo, avrebbe dovuto anticipare le nozze, prima del tempo previsto, o suo figlio non sarebbe stato riconosciuto tale dalla Legge. Al contrario, se la promessa sposa fosse stata riconosciuta colpevole di tradimento, egli avrebbe dovuto ripudiarla pubblicamente.

Erano lontani i tempi in cui la sua gente aveva ritenuto di buon auspicio che una donna restasse incinta prima delle nozze: ciò infatti avrebbe assicurato il futuro marito che essa fosse fertile e che gli avrebbe dato molti figli. Ora, invece,la donna che aspettava un figlio veniva sospettata di tradimento, e se nessuno avesse testimoniato per lei, poteva anche essere lapidata.

Si alzò senza parlare, e senza proferire verbo andò via, lasciandola sola sotto l’albero di sicomoro, nell’ombra della sera che cadeva lentamente, mentre in cielo si accendevano le prime stelle.

La strada, che avrebbe dovuto essere per lui familiare, gli appariva deserta e come sconosciuta. Gli sembrava di trovarsi in un altro paese, in un altro mondo: non quello a lui caro, del luogo dove abitava la sua promessa sposa, ma un deserto oscuro e impraticabile, dove non era mai stato e che non sarebbe riuscito ad attraversare.

Giunse alla casa paterna, immersa nel silenzio e nell’oscurità della sera, e senza prendere cibo si sdraiò, quasi privo di forze, sul materasso di erba secca e foglie che stava in un angolo dell’ambiente, poco lontano dal focolare dove alcuni tizzoni ardevano ancora sotto la cenere.

Rabbrividì sotto il mantello, che, invece di togliersi, aveva stretto ancor di più intorno al corpo, e subito dopo dormiva già, dimentico del mondo che lo circondava.

Ma il sonno, sebbene pesante, non fu senza sogni.

Gli appariva una figura, straordinariamente somigliante a quella che la sua promessa sposa gli aveva descritto quando aveva narrato l’episodio di cui era stata parte qualche giorno prima: una immagine che appariva reale, ma che a veder bene sembrava incorporea, che comunicava con lui senza pure parlare. Egli ne sentiva le parole, e dentro di sé non avvertiva dubbi, come invece ne aveva nutriti mentre era sveglio: le parole, che sentiva riecheggiare nella mente, lo avvisavano di non temere. La sua promessa sposa gli aveva svelato la verità, essa sarebbe stata madre di un Figlio divino, e lui, lo sposo promesso, avrebbe dovuto restare accanto al Figlio e alla Madre, per proteggerli, averne cura, sottrarli ai pericoli che avrebbero minacciato la vita del Bambino.

A lui, quindi, sarebbe toccato un difficile compito: restare, per tutta la vita, in disparte, spettatore, non attore della vita di quella straordinaria Famiglia. Sarebbe stato il padre che tutti avrebbero creduto tale: nessuno infatti avrebbe dovuto sapere che in realtà egli non era il padre vero del Bambino, così come non sarebbe stato il marito della Madre. Ma doveva sposarla: solo così il Figlio sarebbe stato considerato legittimo, e si sarebbe potuto dire che discendesse dalla stirpe di Davide.

 

La giovane donna, intanto, non si era stupita che il suo futuro sposo si fosse allontanato senza parlare, preso dallo sconforto e incapace di decidere ciò che avrebbe dovuto fare.

Sapeva dentro di sé che egli poteva sentirsi tradito: era logico che potesse pensare ciò, e che la ritenesse una bugiarda.

Ma lei era serena: avvertiva una certezza interiore incrollabile. Se il suo Signore aveva deciso che così fosse, avrebbe anche fatto in modo che tutto potesse avvenire senza ostacoli al perfezionarsi della Sua volontà.

Già avvertiva il palpito di una nuova vita nel suo grembo: quel giorno stesso aveva cominciato a preparare delle fasce strappando delle vecchie lenzuola, e ora avrebbe dovuto cucire qualche indumento per la creatura che sarebbe nata.

Ma ancora doveva dire tutto ai suoi genitori, e questo le sarebbe stato più difficile.

Quando lei era nata i suoi genitori erano già in età avanzata, e non si sarebbe creduto possibile che sua madre potesse avere una figlia. Per questo la bambina era stata promessa al tempio, perché offrisse la sua giovane vita al Dio che l’aveva fatta nascere come un dono per i suoi genitori.

E lei si era dedicata al servizio del Tempio e a lodare il Signore.

La sua virtù e la sua castità erano note a tutti, e quando la madre seppe, e con lei il padre, che lei attendeva un figlio, stupirono, ma tacquero, sentendo nel loro cuore che si compiva nel grembo della figlia la volontà dell’Altissimo.

Quando il promesso sposo di lei volle celebrare le nozze, essi non dissero nulla, ma videro anche in questo un segno della Divina Volontà: egli sarebbe stato il padre putativo del Bambino che sarebbe nato, e avrebbe protetto la Madre e il Figlio.

 

La fanciulla  sentiva la vita fiorire nel suo grembo, e si preparava al momento del parto.

Ma in quel momento storico era d’obbligo che le famiglie da poco formatesi andassero ad iscriversi nei registri del capoluogo a cui apparteneva il loro paese.

Lo sposo, senza por tempo in mezzo, la aiutò a salire in groppa ad un asino, e la portò via, verso il capoluogo, dove potessero adempiere all’obbligo di legge.

Ma quella in cui giunsero era pur sempre una piccola città, dove si erano riversati tutti gli abitanti della provincia, e tutti gli alberghi erano occupati, a causa della circostanza.

Essi non trovarono alloggio.

Poi lei, per lo strapazzo del viaggio, e perché il tempo si era compiuto, fu presa dalle doglie.

Lo sposo non aveva scelta: l’unico luogo dove celare la sua sposa e proteggerne il parto era purtroppo una caverna di una montagna vicina al villaggio, dove i pastori abitualmente riparavano le pecore in caso di maltempo, o la notte, durante i loro spostamenti in cerca di nuovi pascoli.

Entrarono, lei piegata in due dalle doglie, lui sorreggendola e tirandosi dietro l’asino, ed ebbero appena il tempo di stendersi sulla paglia che lei partorì, quasi senza dolore, e avvolse la sua creatura, un bellissimo bambino robusto, nelle povere fasce che gli aveva preparato quand’era a casa, e che aveva a stento avuto il tempo di prendere prima di partire.

 

 

Un chiarore si diffondeva intanto nell’oscurità della grotta: non comprendevano come, ma sembrava già l’alba, sebbene fosse notte fonda. Poi, come per miracolo, cominciò a venire tanta gente: pastori, contadini, operai, abitanti del luogo.

E tutti portavano un dono, per il Figlio e per la Madre, cibo ed acqua, paglia pulita per gettarla sul suolo della caverna e riscaldare l’ambiente. Fuori dalla grotta la luce di una straordinaria stella, che sembrava essersi fermata sul monte, rischiarava il paesaggio.

Tre uomini in vesti principesche vennero portando doni regali: oro, incenso e mirra. Adorarono il Figlio, baciarono un lembo della povera veste della Madre.

 

 

Lei, la Madre, non si stupiva di nulla: sentiva che era giusto che fosse così, che tutti adorassero suo Figlio.

Egli era nato per gli uomini, per la loro salvezza.

Essi dovevano adorarlo e riconoscere in Lui il Figlio dell’Altissimo.

Per un attimo dinanzi nella sua mente sorse la visione di una Croce, di un uomo sanguinante che vi era trafitto... ma la scacciò.

Ora aveva davanti agli occhi il suo piccolo, tenero Bambino.

Lo prese in braccio, lo nutrì, lo cullò.

Nella grotta non c’era più nessuno, tranne lei, lo sposo e il Figlio.

Cedette alla fatica, stretta all’Infante, e dormì un lungo sonno ristoratore.

 

 

 

 

NATALE  2010

 

 

 

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